lunedì 13 maggio 2019

August Winds

Appare più capiente del successivo Neon Bull (2015) l’esordio nella finzione di Gabriel Mascaro, perché Ventos de Agosto (2014), pur mantenendo uno strato di base costituito da un preciso focus sulla povertà della realtà brasiliana (aspetto che ritornerà anche nel suo successore), abbraccia tematiche esistenziali dall’ampio respiro che poi è anche l’ultimo, quello definitivo, e quindi affrontando questioni legate alla morte quanto entità incombente su un villaggio in riva al mare, e innestando tale argomento all’interno di ulteriori rii di non meno importanza come la necessità di evadere sognando una professione “artistica”, ecco che la plasmazione di August Winds contempla una certa profondità, ciò non toglie il fatto che il film sia lontano da complessità ed elucubrazioni opprimenti, il suo procedere lineare gli dà una dignità sufficiente che si percepisce nel non voler strafare da parte del regista il quale concede al massimo qualche vezzo estetico rimando con alcune inquadrature similari (il carretto, la canoa) che forniscono una musicalità ed una coesione allo sviluppo visivo e narrativo dell’opera.

Si è detto della componente funebre che piano piano prende il centro del palcoscenico, Mascaro è avveduto nell’instillare quella che è più che altro un’idea di morte all’interno della vita del paese, azzerando le spiegazioni può capitare che un ragazzo trovi sul fondale-tomba del mare il teschio di un vecchio deceduto molti anni prima e che, subito dopo, lo stesso giovane incappi nel cadavere di un altro povero cristo abbandonato a se stesso. Senza che vi siano moniti o memento mori di sorta, a questo adombramento che sa di inevitabilità e che stride con i desideri di una ragazza il cui corpo è un voluttuoso Eden, si assiste con benaccetto piacere anche perché Mascaro, pur sempre figlio del Sudamerica e quindi uomo e artista cresciuto in una terra che dal punto di vista letterario ha spesso tracimato nella magia del surreale, non risparmia piccole fessure sul fantastico con la questione del mare che sta mangiando tratti di costa e che nel luogo della vicenda ha sottratto ad un cimitero il suolo dell’eterno riposo dando vita (?) ad un Giorno del Giudizio appena suggerito, un evento fuori dall’ordinario che nel mood del film non stona in relazione alla durezza della normalità e che anzi fortifica tutto il discorso contenuto tra le due più grande pulsioni dell’umanità: quella verso l’amore e quella verso la morte.

Mascaro, che si concede anche un cammeo in una parentesi più scollegata vestendo i panni di un metereologo intento a registrare il vento, scova come molti altri suoi colleghi latinoamericani (mi vengono in mente Reygadas e Chavarría Gutiérrez) volti che forano lo schermo e che potrebbero anche tacere e parlare solo con le rughe che striano la loro pelle, ed inoltre chiude la pellicola con un’istantanea non priva di lirismo: uno scoglio può arginare il mare.

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