mercoledì 25 luglio 2018

La vida sublime

Avevamo lasciato Víctor Vázquez impegnato nei suoi strani allenamenti da torero ne El brau blau (2008) e lo ritroviamo adesso ne La vida sublime (2010), diverso ma chiaramente identico a ciò che era nel film precedente, ed una tale sovrimpressione ruolistica non può che creare un ponte tra le due opere di Daniel V. Villamediana. Si procede all’insegna della continuità dunque, sebbene sia comunque consigliabile andarci cauti: la pellicola del 2010 segna un tracciato divergente nei confronti di quella del 2008, Villamediana abbandona l’astrazione e l’indeterminatezza, sia geografiche (perché prima eravamo in un luogo indefinito vicino a Barcellona, ora le location sono al contrario un dato essenziale per la storia) che razionali (‘sta volta l’agire del protagonista è di più agile lettura), preferendo imbastire una ricerca famigliare che, come nella migliore tradizione, è una ricerca di se stessi. Attenzione che lo “stile” è sempre altro e il regista nativo di Valladolid si impegna parecchio a fornire un tocco autoriale alla sua creatura, “autoriale” vuol dire tutto e niente, concordo, si sappia solo che la linea di demarcazione tra la virtuosità e l’insolenza artistica è un filo sospeso sui cui Villamediana passeggia non privo di alcune difficoltà. Comunque sia tutta la parte iniziale ambientata prima nel nord della Spagna e poi a Siviglia ha dei risvolti interessanti perché rimanendo sempre in bilico tra realtà e finzione si riesce ad estrapolare delle componenti narrative anche senza una messa in scena capillare. Nel dialogo si forgia una storia, così come le informazioni necessarie (ma anche superflue: il monologo sull’anarchia) che sgorgano dalle opinioni degli interlocutori o dai ricordi dell’anziana nonna.

Vi sono perciò svariate fonti a cui abbeverarsi per tentare un’ipotetica quadratura del cerchio, forse, a prescindere da qualunque sforzo interpretativo, per comprendere appieno La vida sublime bisognerebbe conoscere la Spagna in modo più approfondito perché il film si poggia su un ventaglio di tradizioni del Paese. Così Villamediana si trasforma in un Cicerone che tramite l’errabondare del ragazzo e il suo rapportarsi con gli altri illustra idee e opinioni che in un modo o nell’altro hanno a che fare con la cultura e la società spagnola. Allora, se c’è una prima porzione ci sarà anche la sua prosecuzione che come accadeva nelle produzioni di altri esimi professionisti come Miguel Gomes e Weerasethakul (Blissfully Yours [2002] ha un punto in comune con La vida sublime, a voi il piacere della scoperta) si attua per mezzo di un cinema che nel primo tempo ha una faccia mentre nel secondo un’altra. Oddio, qua non siamo affatto al cospetto di un taglio così netto perché il blocco di Cadice segue una pista similare a quanto c’è stato prima, è però più marcato un allontanamento dalla logicità che ci fa riavvicinare bruscamente a El brau blau: quasi dieci minuti di ripresa frontale con Víctor che si ingozza di sardine, sempre Víctor che fa a pugni con l’aria sugli scogli o che canta con un gallo sottobraccio, e a parte lo scambio di battute con l’ex torero, la piega che il film prende nel finale si fa ancora più surreale e chiusa, il messaggio potrebbe essere: il nipote seguendo le tracce del nonno arriva a prenderne le parti. La risposta annessa sarebbe: e quindi? Ad un presupposto stuzzicante, ossia quello di ripercorrere la strada del proprio nonno ricostruendo una memoria, anche e soprattutto la memoria di una nazione attraverso le voci dei suoi abitanti, corrisponde una deriva eccentrica che non si equilibra bene con il resto. Tuttavia, a prescindere delle suddette osservazioni, l’idea di cinema di Villamediana vale un approfondimento.

Nessun commento:

Posta un commento