A mio modo di vedere Twentynine Palms (2003) è un film che diverge da L’età inquieta (1997) e da L’umanità (1999).
Lo è prima di tutto nel luogo in cui vive perché abbandonata la provincia francese Dumont pone il suo occhio in un deserto, quello californiano, in cui non c’è nulla, almeno a prima vista. Lo è poi nelle intenzioni che si allontanano dalle indagini socio-teologiche del passato autorialmente filtrate, per approdare definitivamente nel cielo oscuro dell’essai, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ciò comporta. Lo è infine per la storia che presenta, una storia di amore adulto fra un uomo e una donna, un David e una Katja (la bellezza spettrale Yekaterina Golubeva, compagna di Sharunas Bartas al quale questo film sono sicuro sarà piaciuto molto) pellegrini nell’arida natura, nel deserto, in un Eden che deve venire o che forse è già passato.
È sintomatico il fatto che alcune delle recensioni consultabili in rete citino le parole del regista francese relative alla sua opera. Questo perché al di là delle innumerevoli critiche apportabili a 29 Palms, il disorientamento è l’effetto principe che pervade a fine visione, e siccome il sottoscritto si è smarrito al pari dei protagonisti userò anch’io il Dumont-pensiero come bussola:
Questo è un film che è nato e si è sviluppato intorno ad una sensazione
Il film si è costruito scoprendo cose, accumulando emozioni.
Un film in cui soggetto e protagonisti non hanno importanza, quello che è importante è lo sfondo.
Nel film ho cercato di neutralizzare l’importanza di tutto (la storia, i personaggi, le psicologie) per concentrare l’attenzione sull’atmosfera.
A sentire così il film sembrerebbe soltanto un mero esercizio di stile, e in effetti sfido chiunque a dimostrare il contrario. Ma ci sono alcuni termini negli interventi qui sopra che mi danno da pensare. Se il progetto si è sviluppato partendo da una sensazione credo sia inevitabile che ne venga effettuata una riproposizione, e ciò che ho percepito, che ho sentito, non è mai stato amore, mai. Piuttosto inquietudine, malessere relazionale, Adamo ed Eva post-mela. Il film non ha davvero niente da raccontare in superficie e probabilmente neanche sotto, il deserto che segna drammaticamente l’assenza di vita è lo specchio di questa secca relazione dove i due scopano come animali, da dietro, litigano, si abbracciano, sono lontani: parlano lingue diverse.
Le sensazioni si avvertono, e non sono positive.
Eppure Dumont ci dice che David e Katja non sono importanti, non è importante chi sono e non è importante che cosa fanno. Credo che Dumont non dica la verità. Il fondale è metafora, paragone di un rapporto, senza il deserto non ci potrebbe essere questa coppia e viceversa, e quindi non esisterebbe nemmeno il film in sé. Il regista potrà spingere quanto vuole il pedale dell’astrazione ma una volta che la mdp si cala nella realtà inizia a rap-presentare, esibisce: il cinema non può essere sincero ma può mostrarci la sincerità, qui è difficile credere a questi due amanti, ed è per questo che il film non è piaciuto, ma ce li mostra in una condizione archetipale che guarda caso è anche la stessa dell’ambiente che li circonda. Archetipi sì, stereotipi anche. Lui amorevole, protettivo, maschio, guidatore (del fuoristrada e della relazione), lei lunatica, sfuggente, remissiva, arrendevole. Dietro l’immobilità registica, dietro il nulla raccontato, e oltre il racconto annullato, per forza di cose Dumont si trova comunque a raccontare qualcosa; pur stratificando emozioni, visioni, sensazioni, il cinema riconduce sempre all’imbuto della concretezza: c’è L’Uomo e c’è La Donna, viaggiano nel deserto e si avverte che prima o poi accadranno delle cose brutte.
Quindi non è solo atmosfera, quindi non c’è solo lo sfondo. Certo è complicato e faticoso capirlo, e forse proprio per questo ancora più bello.
Eggià, lo spettatore paziente che ha dato peso a quest’aria di attesa troverà nel finale il tanto aspettato momento catartico che data la stasi regnante fino a quel momento risulterà ancora più devastante.
A questo punto è utile rifarsi ancora alle parole del regista:
C’è quel finale, perché ad un certo punto bisogna finire. Lo stupro rappresenta proprio la volontà di prendere di peso i personaggi e di immergerli nella violenza, per finire.
E poi ancora:
La prima intenzione era di finire il film con la scena dello stupro. Poi ho aggiunto quel finale per fare un “omaggio”, un “pensiero”, al cinema americano, in particolare al cinema horror americano, che mi sono dovuto sorbire per tanti anni e che ancora continuano a propinarci. Quasi come uno sfottò, insomma.
Sarà, ma io continuo a non credergli e anzi porto avanti il mio pensiero che vede in questo duo il ritratto di una coppia primigenia che tra la banalità della vita (un gelato al tavolino) e quella del male (lo stupro) si distrugge, si auto-distrugge.
Avendo io la fissa di prendere appunti durante la visione di un film, rileggendoli ho notato che la maggior parte delle mie annotazioni riguardavano Katja:
-lei che ride e piange
-lei che sente i tuoni lontani
-lei che cammina scalza
-lei che accarezza i cani
Siamo in presenza di una storia femmineo-centrica? Non saprei dire, ma ciononostante quando i teppisti li aggrediscono nel nulla, appare strano che scelgano come oggetto d’attenzione il fondoschiena di David piuttosto che il corpo della ragazza. Si innesta perciò una sorta di rovesciamento dei ruoli fino a quel momento rappresentati. Tra i due il più debole non è Katja ma David e lo dimostrerà con l’irrazionale azione conclusiva. Quindi ok la sottile critica al cinema americano al quale mi accodo senza indugi, ma per chi scrive il tutto non si esaurisce qua. Il finale vede da una prospettiva artistica degli eventi che succedono nel mondo reale, e checché ne dica lo stesso Dumont lui una storia l’ha raccontata eccome.
Allora, forse, questo film non diverge poi troppo dai due precedenti perché a ben vedere Dumont delle indagini delle investigazioni e delle ispezioni non interessa granché, lui ci fa vedere la rappresentazione della realtà, e non la realtà vera e propria perché il cinema non può farlo, ed una realtà fatta di odio, amore, paura, violenza e soprattutto noia.
Siamo tutti soli in un deserto, e abbiamo paura.
Interventi presi da qui.
Lo è prima di tutto nel luogo in cui vive perché abbandonata la provincia francese Dumont pone il suo occhio in un deserto, quello californiano, in cui non c’è nulla, almeno a prima vista. Lo è poi nelle intenzioni che si allontanano dalle indagini socio-teologiche del passato autorialmente filtrate, per approdare definitivamente nel cielo oscuro dell’essai, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ciò comporta. Lo è infine per la storia che presenta, una storia di amore adulto fra un uomo e una donna, un David e una Katja (la bellezza spettrale Yekaterina Golubeva, compagna di Sharunas Bartas al quale questo film sono sicuro sarà piaciuto molto) pellegrini nell’arida natura, nel deserto, in un Eden che deve venire o che forse è già passato.
È sintomatico il fatto che alcune delle recensioni consultabili in rete citino le parole del regista francese relative alla sua opera. Questo perché al di là delle innumerevoli critiche apportabili a 29 Palms, il disorientamento è l’effetto principe che pervade a fine visione, e siccome il sottoscritto si è smarrito al pari dei protagonisti userò anch’io il Dumont-pensiero come bussola:
Questo è un film che è nato e si è sviluppato intorno ad una sensazione
Il film si è costruito scoprendo cose, accumulando emozioni.
Un film in cui soggetto e protagonisti non hanno importanza, quello che è importante è lo sfondo.
Nel film ho cercato di neutralizzare l’importanza di tutto (la storia, i personaggi, le psicologie) per concentrare l’attenzione sull’atmosfera.
A sentire così il film sembrerebbe soltanto un mero esercizio di stile, e in effetti sfido chiunque a dimostrare il contrario. Ma ci sono alcuni termini negli interventi qui sopra che mi danno da pensare. Se il progetto si è sviluppato partendo da una sensazione credo sia inevitabile che ne venga effettuata una riproposizione, e ciò che ho percepito, che ho sentito, non è mai stato amore, mai. Piuttosto inquietudine, malessere relazionale, Adamo ed Eva post-mela. Il film non ha davvero niente da raccontare in superficie e probabilmente neanche sotto, il deserto che segna drammaticamente l’assenza di vita è lo specchio di questa secca relazione dove i due scopano come animali, da dietro, litigano, si abbracciano, sono lontani: parlano lingue diverse.
Le sensazioni si avvertono, e non sono positive.
Eppure Dumont ci dice che David e Katja non sono importanti, non è importante chi sono e non è importante che cosa fanno. Credo che Dumont non dica la verità. Il fondale è metafora, paragone di un rapporto, senza il deserto non ci potrebbe essere questa coppia e viceversa, e quindi non esisterebbe nemmeno il film in sé. Il regista potrà spingere quanto vuole il pedale dell’astrazione ma una volta che la mdp si cala nella realtà inizia a rap-presentare, esibisce: il cinema non può essere sincero ma può mostrarci la sincerità, qui è difficile credere a questi due amanti, ed è per questo che il film non è piaciuto, ma ce li mostra in una condizione archetipale che guarda caso è anche la stessa dell’ambiente che li circonda. Archetipi sì, stereotipi anche. Lui amorevole, protettivo, maschio, guidatore (del fuoristrada e della relazione), lei lunatica, sfuggente, remissiva, arrendevole. Dietro l’immobilità registica, dietro il nulla raccontato, e oltre il racconto annullato, per forza di cose Dumont si trova comunque a raccontare qualcosa; pur stratificando emozioni, visioni, sensazioni, il cinema riconduce sempre all’imbuto della concretezza: c’è L’Uomo e c’è La Donna, viaggiano nel deserto e si avverte che prima o poi accadranno delle cose brutte.
Quindi non è solo atmosfera, quindi non c’è solo lo sfondo. Certo è complicato e faticoso capirlo, e forse proprio per questo ancora più bello.
Eggià, lo spettatore paziente che ha dato peso a quest’aria di attesa troverà nel finale il tanto aspettato momento catartico che data la stasi regnante fino a quel momento risulterà ancora più devastante.
A questo punto è utile rifarsi ancora alle parole del regista:
C’è quel finale, perché ad un certo punto bisogna finire. Lo stupro rappresenta proprio la volontà di prendere di peso i personaggi e di immergerli nella violenza, per finire.
E poi ancora:
La prima intenzione era di finire il film con la scena dello stupro. Poi ho aggiunto quel finale per fare un “omaggio”, un “pensiero”, al cinema americano, in particolare al cinema horror americano, che mi sono dovuto sorbire per tanti anni e che ancora continuano a propinarci. Quasi come uno sfottò, insomma.
Sarà, ma io continuo a non credergli e anzi porto avanti il mio pensiero che vede in questo duo il ritratto di una coppia primigenia che tra la banalità della vita (un gelato al tavolino) e quella del male (lo stupro) si distrugge, si auto-distrugge.
Avendo io la fissa di prendere appunti durante la visione di un film, rileggendoli ho notato che la maggior parte delle mie annotazioni riguardavano Katja:
-lei che ride e piange
-lei che sente i tuoni lontani
-lei che cammina scalza
-lei che accarezza i cani
Siamo in presenza di una storia femmineo-centrica? Non saprei dire, ma ciononostante quando i teppisti li aggrediscono nel nulla, appare strano che scelgano come oggetto d’attenzione il fondoschiena di David piuttosto che il corpo della ragazza. Si innesta perciò una sorta di rovesciamento dei ruoli fino a quel momento rappresentati. Tra i due il più debole non è Katja ma David e lo dimostrerà con l’irrazionale azione conclusiva. Quindi ok la sottile critica al cinema americano al quale mi accodo senza indugi, ma per chi scrive il tutto non si esaurisce qua. Il finale vede da una prospettiva artistica degli eventi che succedono nel mondo reale, e checché ne dica lo stesso Dumont lui una storia l’ha raccontata eccome.
Allora, forse, questo film non diverge poi troppo dai due precedenti perché a ben vedere Dumont delle indagini delle investigazioni e delle ispezioni non interessa granché, lui ci fa vedere la rappresentazione della realtà, e non la realtà vera e propria perché il cinema non può farlo, ed una realtà fatta di odio, amore, paura, violenza e soprattutto noia.
Siamo tutti soli in un deserto, e abbiamo paura.
Interventi presi da qui.
In quale momento avrei potuto leggere questa rece? Proprio oggi, ché intorno e dentro me è pura aridità! :/ Sono andata a ritroso nelle tue recensioni di tutti i Dumont. Condivido i tuoi punti di vista... :) appunti? Come fai? :))) ammirazione! L'ultimo non l'hai visto, o è stata mia distrazione? A me colpì molto: Hadewijch! Sembra, ma mi auguro non lo sia, conclusa la sequela della trattazione poetica di Dumont di tutti i vari aspetti della 'umanità' considerata nelle varie età ;)
RispondiEliminaMi spiace per l'aridità attuale che ti circonda, se ti può consolare non sei l'unica.
RispondiEliminaHadewijch non l'ho ancora visto, ma senza dubbio appena lo farò ne sarete informati :)
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi dell'ultimo film di N. Moretti...
RispondiEliminaL'argomento non mi ispira molto, e nemmeno il regista stesso di cui ho visto solo un film. Sono conscio del fatto che rischio di perdermi qualcosa di importante.
RispondiEliminaMoretti è un genio. Approfondiscilo, sopratutto i primi film.
RispondiEliminaGiovanni
Periodo in cui non ho nemmeno il tempo di guardarmi allo specchio, menchemeno di guardare un film. Tengo conto del suggerimento, Gio.
RispondiEliminaPerò ieri sera ho visto Habemus Papam, e mi è discretamente piaciuto.
RispondiEliminaIo vado lunedì. Aspettative alte.
RispondiEliminaGio
Twentynine Palms è un film sicuramente sbagliato, per le sue deflagrazioni improvvise, per l'assenza di un punto di vista chiaro su una storia che neanche c'è e che quas subito si fa confusa. Ma bisogna anche avere il coraggio di farli certi film. In questo film del 2003 Dumont ripete quella che è la struttura portante del suo cinema: il paesaggio circostante non è altro che l'emanazione dello stato d'animo dei propri personaggi (lo ha anche lo stesso regista in un intervista). La messa in scena manichea dell'America più profonda è densa di xenofobia e razzismo, la recitazione è "di strada", o meglio, sembra non esserci affatto, anche perché Dumont utilizza gli attori come persone e riesce a non farli mai recitare. Twentynine Palms è un film che nessuno avrebbe mai il coraggio di fare, è di una schiettezza, di un'aridità umana tale che farebbe impallidire un Von Trier. Io personalmente gli preferisco Hadewijch (2009), lo preferisco anche a Flandres (2006) e trono quasi buono Hors Satan (2010). Ma il lavoro che Dumont ha fatto sulla novizia di Hadewijch è molto più consapevole e sensato. In Hadewijch non c'è pornografia dello sguardo, niente colpi bassi, solo il pudore e la lirica di un cineasta che indaga il presente nello sguardo smarrito della sua attrice. E' un cinema inammissibile quello di Dumont, per pochi, intransigente, povero ma denso di costruzioni emotivo-paesaggistiche mai viste.
RispondiEliminaParli con uno che ha sofferto molto nel vedere i film di Dumont.
RispondiEliminaRaramente ho sentito così forte l'energia del cinema travalicare lo schermo, e per questo lo apprezzo molto, moltissimo. Twentynine Palms è un film un po' atipico per lui, non lo trovo "sbagliato" ma coraggioso sicuramente sì. E' un'opera difficile che sfida lo spettatore, è una sfida che comunque va raccolta come tutte quelle che minano le ordinarie istituzioni della settima arte.
Personalmente gli ho amati tutti i suoi film, chi più chi meno. Anche se ciò che per te è Hadewijch per me è Hors Satan, film di piena maturazione, puro mistero su celluloide: ad oggi il mio Dumont preferito.
cavolo ho appena scoperto che circa un anno fa è scomparsa l'attrice di questo film che ho visto a Venezia (durante la proiezione riservata alla stampa) quando dovetti assistere a cori beceri di parecchi giornalisti (veri non come me) che prima di abbandonare la sala a metà film urlarono di tutto..
RispondiEliminalei la conobbi qui grazie a te e alla recensione di trhee days di bartas..mi spiace davvero tanto e non so perchè.
aveva un viso dolcissimo e inquieto
ciao
Luca
Ciao Luca, se l'avevi vista a Venezia allora l'avevi "conosciuta" prima mi sa :). Comunque quando lessi la notizia ne fui dispiaciuto anche io, vista aldiqua dello schermo sembrava una creatura troppo fragile per questo mondo.
RispondiEliminasi hai ragione ma non mi curai di lei dopo la visione del film come a volerlo lasciare navigare in testa come faccio spesso soprattutto con le cose più disturbate..tralaltro alla conferenza stampa c'erano solo l'attore (ultrasconosciuto che mi sa non ha più lavorato o quasi) e il buon Brunetto..poi mi informai meglio più tardiquando vidi il film di bartas..ciao e buon lavoro
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