
Liberté
(2019)
è l’ultima suggestione franco-settecentesca di Albert Serra che va
così a comporre un’eterogenea trilogia iniziata nel 2016 con The
Death of Louis XIV e proseguita
nel 2018 con Roi Soleil
(volendo potrebbe anche essere una quadrilogia se annettiamo Story
of My Death, 2013), affrontati i
lavori precedenti tocca avvicinarsi al più recente: accidenti, è un
Serra davvero ostico quello che ci troviamo davanti, se nei film
passati c’erano dei segnali concettuali che si ripetevano e degli
studi più o meno evidenti su materie intra ed
extra-cinematografiche, Liberté,
nomen omen
che ci dice già abbastanza della direzione voluta dal regista,
scorrazza, appunto, libero in una dimensione notturna dove accade una
cosa alquanto curiosa: la pellicola, che illustra uno spaccato di
libertinismo, è praticamente obbligata a instradarsi verso un
erotismo, se non proprio una pornografia, che nell’ottica sadiana
non ha freni, eppure la visuale del catalano ci restituisce
un’atmosfera che non ha niente di pruriginoso, pur mostrando, e
anche tanto, la carica sessuale è pressoché azzerata, in questo
bosco che come viene asserito nella recensione di Sentieri selvaggi
(link) pare l’antesignano di una moderna dark room, i protagonisti
deambulano circospetti tra le frasche, paiono delle creature un po’
spaesate mosse da istinti bislacchi, non è che non vi siano
parentesi di carnalità, tutt’altro, pissing, BDSM ante litteram e
via dicendo sono presenti nell’album delle depravazioni, il fatto è
che Serra non le esibisce, il suo occhio non è ostensivo, non è
voyeuristico, paradossalmente è maggiormente interessato a
osservare... chi osserva, infatti Liberté
ama
soffermarsi sugli sguardi dei personaggi senza offrire un chiaro
controcampo di ciò che vedono, complice la sempre dogmatica scelta
di affidarsi alle luci naturali o simil tali, scorgiamo al massimo qualcosa (due
chiappe, un viso deturpato, una tetta, un pene [1]), parti di un
intero che rimane oscuro.
Sì,
simbolicamente l’idea di un’oscurità che ci impedisce di
comprendere appieno l’opera mi garba assai perché del resto chi
desidera la chiarezza della luce solare? Indubbiamente né noi né le
varie Madame e i vari Duca a cui Serra fornisce un allestimento che
verrà ricordato (le portantine), nonché l’unico perché il set è
completamente naturale (consiglio la visione con le cuffie per godere
del costante respiro boschivo che avvolge ogni cosa), lo spazio
nemorale è una sorta di grembo che accoglie queste anime all’incirca
eccitate intente in pratiche sì sovversive ma pur sempre
clandestine, recintate, chiuse in un luogo che li protegge dal mondo,
l’impressione è che sia una follia che può esistere soltanto nel
buio, non a caso, con il sorgere dell’alba, non ci sarà più
nessuno dei soggetti imparruccati con cui siamo stati a stretto
contatto per due ore e passa, l’ultima immagine che si ha di loro è
di Lluís Serrat, uno che a loro
non appartiene poiché essendo attore feticcio di Serra risulta un
corpo estraneo che trascende la narrazione già rivolto alla prossimo
titolo, che si guarda intorno confuso, poi solo alberi timidamente
illuminati. Un buon numero di commenti in Rete sottolinea di come
Liberté dica
di una rivoluzione impossibile, di un manipolo di dissoluti che non
potranno cambiare alcunché nel corso della storia, io mi accodo
annotandomi il percorso di un Serra sempre pronto a mettere in
difficoltà lo spettatore, e la cosa, detto tra noi, mi piace
molto.
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[1] A proposito di organi
genitali, uno dei nobiluomini che bazzica la scena utilizza una specie di
dildo per soddisfare le sue fantasie. Il che, vista l’ambientazione, ricorda
alla lontana il membro parlante di Marquis (1989).
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