Anche ne Il solengo
(2015), esattamente al pari di Belva Nera (2013), emerge una
forte narrazione orale orientata verso un qualcosa che non ha una
consistenza materiale, se nel corto precedente era una pantera a
farsi specchio delle paure di questo borgo laziale, adesso a divenire
simbolo di un’alterità quasi indispensabile per il resto dei
locali è l’entità-Mario, loro sempre pronti a ritrovarsi nelle
chiacchiere di paese davanti ad un bicchiere di vino, lui selvatico,
animalesco, scontroso. Probabilmente inconsapevoli del fatto che
Mario era una sorta di “lato oscuro” che viveva nei dintorni,
come un fantasma, una proiezione di quello che in fondo potevano
essere, gli abitanti del paese di fronte alla videocamera di Rigo de
Righi e Zoppis parlando dell’eremita alla fine non parlano altro
che di se stessi. Così, in questa autobiografia collettiva
mascherata da racconto popolare, il fluire delle memorie si sfaccetta
in base ai punti di vista dei testimoni, e nel ricostruire la vita
del solengo gli episodi si sminuzzano in decine di particolari che
danno vita ad una storia epica dove si mescola tutta la meraviglia e
il senso atavico proveniente dalla terra contadina. Quello che più
emerge e che permette al film di centrare l’obiettivo è la forza
espositiva trasmessa, in totale semplicità, senza voler stupire lo
spettatore ma accompagnandolo in un percorso che nella dimensione
agreste si fa primigenio tanto che il proferire dialettale dei vecchietti
sullo schermo potrebbe, per quanto mi riguarda, anche essere
inesauribile senza smarrire mai nulla dell’originarietà che
sostanzia le loro parole.
Si diceva della
semplicità, è un dato che va registrato: Il solengo si
alterna a confessioni degli abitanti a riprese estatiche del bosco
circostante; in pratica non c’è altro, anche se, ovviamente, c’è
già moltissimo. Importante sottolineare che la coppia in regia
compie con astuzia un grosso depistaggio che si crea tassello dopo
tassello nei confronti di chi guarda, e una volta tranquilli di
trovarci in una situazione conoscitiva pressoché completa
(d’altronde tutti si riferiscono a Mario parlandone al passato…),
ecco che il finale ridiscute gli assiomi fino a quel momento
elaborati e la costruzione stessa della conclusione con una sfocatura
che lentamente si depura per mostrarci la verità possibile, è un
bel momento filmico che smuove certe cose dentro. Non sappiamo chi
sia quella persona sul letto, se davvero Mario o un altro Cristo come
tanti, l’importante per noi e per la settima arte è il
concretizzarsi dell’eventualità proprio grazie al cinema.
Per il resto:
“Non le saprai mai
quelle cose”
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