venerdì 29 dicembre 2017

Erosioni

Nella notte: una fitta lancinante le fa aprire gli occhi, ci mette qualche minuto per comprendere che quella fastidiosa pulsazione proviene da dentro la bocca, in una gengiva, in un piccolo nervo attorcigliato sotto un dente, si riaddormenta ma il sonno è molestato dal dolore e sprofonda in un incubo dove suo padre è di nuovo vivo in carne ed ossa e mangia una minestra gialla nella fredda cucina di casa, allora scatta giù dal letto e si precipita nella camera dei genitori e con una mano sulla mandibola tira un sospiro di sollievo: papà è ancora morto e sta lì immobile vicino al grosso comò, dopo il suo decesso le gambe si sono fuse in un solido tronco che ha messo radici nel pavimento, le braccia rami, le dita foglioline verdi, la testa un nodo contorto dall’aspetto celebrale, che succede piccola mia? Chiede il padre-albrero, papà mi fa male un dente! Vieni qui e fammi vedere: da un incavo del legno sbuca un pulcino con un occhio da Polifemo che scruta la dentatura della ragazzina, oh-oh-oh tesorino non c’è nessun dentista che possa curarti, lo senti questo strano rumore? Sì... ed è anche fastidioso! È il mare, o meglio la tua saliva che si è fatta mare e che sbatte contro quella scogliera di calcio e smalto che è diventata il punto più estremo dell’Europa, la tua lingua naviga in un Atlantico in burrasca la cui ferocia ha mangiato la roccia lasciando un buco che da sotto fa vedere il cielo-palato e da sopra l’acqua-radice, non avere paura amore, passerà, sì ma fa tanto male papi...

Il giorno dopo a ricreazione: ehi e quello chi è? Carino vero? Pare sia uno nuovo che viene da fuori, l’ho visto ieri mentre entrava, è proprio figo, sì, sembra diverso dagli altri che conosciamo. Sembra diverso.

[eventi routinari accadono in questa parentesi quadra: è autunno e il padre ingiallisce fino a sfrondarsi, nella stanza le foglie secche a terra si rattrappiscono, la figlia, al contrario, si sente fiorire e dice così all’amica io non posso farci niente, nel senso, lo vedo e arrossisco, penso che se solo mi salutasse addio, morta, divento una cretina totale se è a qualche metro di distanza, cosa vuoi che faccia? Da una parte vorrei parlargli dall’altra il solo pensiero mi uccide, perché è così difficile? E poi cosa penserà lui di me?, il mal di denti continua, è un flagello costante, picchia forte la notte, pensa al nuovo compagno e al culmine del patimento è costretta a sgattaiolare ai piedi del ciocco paterno per cercare qualche coccola arborea]

Poi: è così perfetto che quasi non ci crede, loro due seduti su una panchina che si affaccia sul Mediterraneo, poca gente in giro, la tacita consapevolezza di essere i potenziali protagonisti di una futura complicità, non si dicono niente di fondamentale importanza poiché l’unica cosa importante, ora, è essere lì, insieme, e sfiorarsi con le ginocchia, ridere di un compagno un po’ scemo, ricordare situazioni del proprio passato personale costruendo, involontariamente, un piccolo mausoleo della memoria condivisa che magari, in futuro, potrà essere riconsultato, adesso all’interno dei loro cervelli da teenager un fluido color rosa inebria le sinapsi che rallentano la folle trasmissione di informazioni, senza accorgersene sono immersi in una bolla amniotica che li attrae vicendevolmente, il mare, l’orizzonte, il motore di una automobile lontana, il verso stridulo di un gabbiano che ha scambiato lo spicchio di sole calante per un gigantesco chicco di grano e che voltandosi verso la costa vede un’altra luce brillare. Si stanno baciando. La lingua di lui va a posarsi delicatamente sul dente dolente e lei viene scossa da un tremito, il male si placa, non sente più niente, a Cascais la Boca do Inferno svanisce nel nulla, al posto del buco luciferino compare un anonimo scoglio su cui l’Oceano colpisce senza scolpire alcunché.

Le labbra si dividono e lui dice: ma come? Non ti ricordi di me? Non ti ricordi di noi? Quando ti ho vista la prima volta a scuola nemmeno io ricordavo, poi una memoria non mia è emersa dal buio. Tuo padre faceva il tassista a Bangkok, per i turisti seduti sui sedili posteriori era solo gli occhi devastati dal traffico e dallo smog riflessi nello specchietto retrovisore, a fine mese mandava a te e a tua sorella tre o quattromila Baht, il resto, quel poco, lo teneva per pagare l’affitto in uno squallido monolocale vicino a Patpong, tu invece vivevi al nord, nella tranquilla Chiang Mai, ed è lì che ci siamo incontrati una domenica sera tra le innumerevoli bancarelle del mercato settimanale, io ero arrivato da Lisbona due settimane prima e avevo già girato la Thailandia da cima a fondo, cercavo, come noi occidentali erroneamente crediamo, un me stesso andando via di casa, ma in realtà continuavo a portarmi dietro una solitudine che non era medicata né dagli incontri occasionali nei massage parlour, né dalla visione dei templi dorati, così, mentre passeggiavo tra la folla, fui attirato da un baracchino che vendeva insetti tostati, visti da vicino avevano un aspetto quasi commestibile, sembravano caramelle di liquirizia, ero indeciso quale scegliere quando un dito indicò quelli più piccoli, era il tuo dito e io accettai il consiglio, a differenza tua che apprezzavi parecchio lo strano snack dicendo in un inglese rivedibile che siccome erano insetti mangia-legno avevano un buon sapore, io in bocca sentivo solo un gusto di terra ma onestamente non mi importava perché avevamo iniziato a parlare e nonostante anche il mio di inglese fosse un po’ claudicante ci capivamo, e passeggiammo a lungo allontanandoci dal brulichio dei turisti fino ad oltrepassare le vecchie mura che circondavano la zona più antica, mi dicevi che eri nata lì, che studiavi e che ogni tanto lavoravi, io non capivo bene, faceva caldissimo, ti presi la mano e continuammo a camminare fino a che lo stesso dito di prima indicò il cancello di una casetta a due piani, volevi che ti seguissi e, semplicemente, lo volevo anche io. All’interno l’abitazione era abbastanza pulita, c’era un forte odore di cibo cucinato e di spezie che svanì una volta saliti in camera, non ricordo l’arredamento perché la luce era spenta, ricordo bene, invece, il contatto con il tuo corpo liscio e il tuo alito che sapeva di menta, pensai, stupidamente, che quegli insetti dovevano aver banchettato nel tronco di un pino. Rivestendomi con te che ancora affioravi tra le coperte mi chiedevo se dovevo pagarti per la notte appena passata, ma non toccai l’argomento e mi limitai a dire che il giorno dopo sarei salito su un aereo per Bangkok e da lì avrei poi fatto ritorno in Portogallo, ci scambiammo i numeri di telefono perché in fondo quando si fa sesso con una persona c’è sempre il flebile desiderio di mantenere un legame nel tempo, ti diedi un bacio sulla fronte e me ne andai. Per tutto il giorno pensai a te come un adolescente indeciso se scriverti su WhatsApp, lo feci alla sera “would you come in my hotel? :)”, ma non potevi, tua sorella stava male e non ti andava di lasciarla sola, guardai alla tv un incontro di Muay thai e presi sonno. Al mattino la reception chiamò un taxi per portarmi in aeroporto, mentre caricavo le valigie ti vidi sorridere dall’altra parte della strada, poco dopo il taxi ripartì, ma senza di me. Rimasi a Chiang Mai un altro mese, inventai delle frottole sul passaporto sia ai miei famigliari che alla compagnia di assicurazioni lisbonese dove lavoravo, furono giorni di felicità totale dove la razionalità era stata azzerata, si può amare in modo completo e profondo una persona pressoché sconosciuta? Non avevamo una risposta e non ci interessava averla, eravamo insieme e tanto bastava. Quando dovetti tornare in Europa il distacco fu struggente, lacrime e singhiozzi facevano da colonna sonora agli ultimi minuti precedenti all’imbarco, un’immagine che ho di te in quel momento ti vede con le braccia conserte e gli occhi lucidi che mi guardi passare i controlli aeroportuali, non c’è stato altro istante nella mia vita in cui io abbia percepito un’empatia così forte con un essere umano. Sul volo di ritorno fissavo il monitor davanti a me dove un aeroplano stilizzato lasciava dietro di sé un arco rosso sopra il Medio Oriente, quell’arco era ciò che ci legava. Ritornare alla vita di tutti i giorni risultò impossibile, ci sentivamo continuamente e quando a lavoro il quadratino di Skype sul mio schermo diventava arancione mi sentivo sollevato perché significava che ero nei tuoi pensieri, facevamo delle lunghissime videochiamate a notte fonda per me e a mattino per te, non ci dicevamo nulla di essenziale ma saremmo andati avanti giorni interi. Per fortuna di lì a poco arrivò Natale e la Compagnia in cui ero impiegato chiudeva fino alla seconda settimana di Gennaio, decidemmo che al mio ritorno ci saremmo fermati a Bangkok perché volevi farmi conoscere tuo padre, sotto il suo appartamento ce n’era un altro che ci avrebbero affittato il tempo necessario per qualche migliaio di Baht. Ripercorsi nuovamente quel ponte invisibile sulla mappa del monitor che riuniva mezzo mondo, una volta atterrato e una volta al tuo fianco sentivo che avrei potuto superare qualsiasi ostacolo, che allora era vero: in oriente era possibile ritrovare se stessi, negli altri. Vidi tuo padre la prima volta dopo che aveva finito da poco un turno di dodici ore, era talmente magro che qualunque camicia gli sarebbe andata larga, portava dei baffetti curati e una foto spiegazzata di Rama IX nel taschino sinistro, fin da subito fu molto diffidente nei miei confronti, non parlava inglese, o almeno non voleva parlarlo con me, e nei pochi dialoghi avuti dovevi fare da interprete. La casa affittata era più che altro una stanza con un bagno, dalla finestra potevo vedere lo Skytrain che serpeggiava tra i grattacieli, le luci notturne di Bangkok si allungavano morbide sul soffitto dell’appartamento mentre facevamo l’amore, poi ci addormentavamo con la tua schiena adagiata sul mio sterno, come due cucchiaini che riposavano in un cassetto. E una sera, dopo aver passato la giornata nel quartiere cinese e nel suo incredibile mercato che mi aveva fatto sentire un alieno giunto su un nuovo pianeta, ti sussurrai all’orecchio “come with me in Portugal...”, alla cena seguente eravamo nella casa di tuo padre che silenzioso mangiava una specie di minestra giallognola, lo stesso colore della canottiera che indossava, e capii dal tono delle vostre voci che si stava alzando di quanto lui fosse contrario alla tua partenza, solo nel momento in cui terminasti di parlare con una grinta che non conoscevo l’uomo sollevò dal piatto i suoi occhi da tassista e ti tirò uno schiaffo talmente forte da farti sputare un dente sul pavimento. Non ci pensai due volte, ti presi per il polso e scendemmo al piano di sotto a fare le valigie, dodici ore dopo ero di nuovo su un aereo che attraversava il globo, ma questa volta quel filo rosso sullo schermo lo stavamo tracciando insieme. È difficile poterti spiegare che cosa furono per me i primi mesi insieme a Lisbona, io, che prima di partire per la Thailandia non sopportavo più la mia città, il mio Paese e la mia cultura, non vedevo l’ora di poterti mostrare ogni giorno qualche luogo, anche il più ameno, che significava qualcosa per me, avevo capito l’importanza di condividere ed un giro all’Alfama o una passeggiata fino alla Torre di Belém erano dei momenti speciali che mi facevano scoppiare il petto di gioia, ti parlavo della letteratura portoghese, del cinema, di un libro in cui il Portogallo si staccava dall’Europa e iniziava a navigare nell’Oceano, e tu mi ascoltavi con un rispetto così assoluto sebbene non avessi nulla a che fare con Saramago o de Oliveira che alla fine mi mettevo sempre a piangere e le lacrime erano lenite soltanto dai tuoi baci.
Ti ricordi adesso? Ti ricordi del freddo che arrivò? Non avevi mai messo una giacca prima di allora ed il vento gelido che ghiacciava la faccia ti rendeva nervosa, non me ne accorsi subito perché non volevo farlo ma degli scricchiolii iniziarono ad intromettersi nella nostra vita, tornavo da lavoro e ti trovavo sul divano a guardare apatica la tv, parlavi poco e passavi le serate a confabulare via Viber con tua sorella, la prima volta che litigammo fu per dei panni lavati che lasciasti stesi durante un temporale, non c’entravano niente i panni, era solo un modo per dare sfogo a quel malessere che piano piano ci stava cingendo. Cercai di recuperare portandoti a cena nel miglior ristorante della Baixa, ma dal tuo sguardo spento saremmo potuti essere anche in un bordello di Soi Cowboy che non avrebbe fatto differenza, tentai di essere più presente chiedendo un part-time, ti feci molti regali e molte sorprese per finire come quei genitori che si ostinano a comprare l’affetto dei figli regalando loro oggetti materiali. Capii che eravamo giunti ai calci di rigore quando dopo un periodo di indifferenza reciproca ti lanciai sul letto nel goffo tentativo di spogliarti, mi presi a schiaffi fino a graffiarmi il viso per divincolarti da quello che era solo un poveretto privo di brutte intenzioni, infatti restai lì rannicchiato soffocando i singulti fino ad addormentarmi, riaprii gli occhi avvertendo il tuo fiato ad un palmo dal naso, compassionevolmente accarezzavi la mia nuca ripetendo “it’s not your fault, it’s not your fault”. Quella fu l’ultima volta che ti parlai. Il mattino dopo ricevetti un messaggio in cui dicevi che tuo padre si era schiantato contro un albero a Bangkok e che adesso era in fin di vita. Mi precipitai a casa con un pensiero fisso: non ci sono alberi a Bangkok, ma tutto ciò che rimaneva di te era un cuore disegnato con la matita rossa su un foglio bianco lasciato sopra il tavolo della cucina, e il contorno di quel cuore si distese fino a diventare per l’ennesima volta il filo che avvolgeva la piccola biglia azzurra che calpestiamo, tornai a Bangkok per cercarti, bussai alla porta di tuo padre ma niente, chiesi a qualche vicino, mi rivolsi perfino alla polizia senza avere una risposta: eri svanita. Con un volo interno mi recai a Chiang Mai dove ci eravamo conosciuti, ma anche lì, nella casa dove mi avevi portato la prima sera, non c’era anima viva. Guardando un gruppo di ladyboy che entravano in un locale mi sentii profondamente solo e mi domandai se non fosse stato solo il sogno sentimentale di un uomo malinconico. Per l’ultima volta rifeci la strada verso il Vecchio Continente e, ironicamente, in quel volo i monitor sui sedili erano fuori servizio. Per mitigare un po’ il dolore che continuamente mi tormentava presi l’abitudine di andare a Cascais e di inerpicarmi sugli scogli ostili della Boca do Inferno... ti chiederai se ho mai pensato di buttarmi di sotto, sì, l’ho pensato, e ci sono andato davvero vicino, mi ha salvato la vita un tizio con gli occhialetti e il Borsalino che una sera è apparso da dietro una roccia e che timidamente mi ha passato un foglietto su cui c’era scritto in elegante calligrafia:

Fernando Pessoa, celibe, maggiorenne, eccetera, abitante dove a Dio piace concedergli di abitare in compagnia di diversi ragni, mosche, zanzare e altri elementi di ausilio al buon sonno e al buon stato delle case; avendo ricevuto indicazione – anche se soltanto telefonica – che potrà essere trattato come un cristiano a partire da una data da stabilire; e che il suddetto trattamento da cristiano sarebbe costituito da: non un bacio, ma la semplice promessa di esso, e da essere procrastinato indefinitamente finché egli Fernando Pessoa non dimostri che 1. ha otto mesi di età; 2. è bello; 3. esiste; 4. piace alla entità deputata alla distribuzione della merce; e 5, non si suicida prima del termine, come sarebbe suo naturale obbligo; chiede, per la tranquillità della persona incaricata della distribuzione della merce, che gli venga rilasciato un certificato attestante che 1. non ha otto mesi di età; 2. non è un racchio; 3. non esiste nemmeno; 4. è disprezzato dalla entità distributrice; 5. si è suicidato.
(È finita la carta bollata)
A questo punto dovrebbe scriversi “Resta in attesa con ossequi”, ma non attende niente
Fernando [1]

E lei spaventata risponde: ma io... ma io ho solo sedici anni, non ho ricordi del Portogallo o della Thailandia, e scappa via lasciando al vento le parole devo andare da papà.

Ma sull’autobus: inizia a ricordare tutto, con la fronte appoggiata al freddo finestrino chiude le palpebre e il ronzio del motore è una frequenza che si insedia nel cervello al posto del fluido rosa, ricorda, ma non sono i suoi ricordi, eppure lo sono: l’incontro, la prossimità, le attese, la trasvolata, la nostalgia, le paure, l’incidente, la fuga, l’oblio. Il dente ricomincia a torturarla, ora sa che cos’è, è lui seduto sulle rocce aguzze che soffre, davanti ha una distesa di acqua salivare indifferente, dietro due continenti gengivali che lo separano da lei, in viaggio, stanca, su un autobus, un aereo, in un sogno, il pensiero erode e sgretola, il gelo del finestrino trasmigra nelle viscere, osserva le mani: non ha più le dita: osserva i piedi: sono diventati due stecchini affusolati: osserva il riflesso di se stessa: la testa sferica: marroncina: due antenne, due cheliceri, un’elitra lucida: cerca di parlare e un filo di bava le penzola sull’addome impeluriato. Appena le porte si aprono zampetta fuori dal bus in preda all’angoscia, qualcuno la butterà in una padella per farla alla brace e finire poi giù per l’esofago di qualche turista curioso? Entra in casa attraverso la serratura e si inerpica su per le scale rifugiandosi nella propria cameretta.

Di notte, sempre: finalmente si sveglia, finalmente si addormenta. Nel silenzio avverte solo le sue zampe sul pavimento che si avvicinano verso i piedi-radici del babbo, sanno di menta, senza pensarci troppo affonda le piccole chele nel legno, fora la corteccia, sgretola i tessuti tenaci e fibrosi del tronco, mangia, mangia il padre, l’albero che porta i segni dello schianto, l’uomo che ha sfiorato la morte, e lei, così piccola e invisibile, scava profondi cunicoli nel passato, gli intercapedini si incrociano, gallerie prendono vita in un dedalo portato avanti dal suo alacre sgranocchiare e alla fine il ceppo alla base si riscinde in due gambe, i rami di nuovo braccia, le foglie dita, il grumo contorto testa, il pulcino polifemico viso. È sfinita. Intorno a lei trucioli e dune di segatura, finalmente si addormenta, finalmente si sveglia, mette un piede fuori dal letto, si ravvia i capelli dietro l’orecchio e con passo felpato segue il brusio che giunge dal salotto, non vuole farsi sentire, ssssshhh, scivola lungo il corridoio venendo osservata dalle foto di famiglia insospettite dal suo avanzare di soppiatto, mette la testa a filo con lo stipite della porta e vede una poltrona dal cui schienale sbuca una nuca brizzolata, un metro più avanti la tv trasmette il telegiornale.

Qualche tempo dopo fa un grande respiro e decide di inviargli un messaggio che termina così: ... e quindi mi dispiace davvero essermene andata all’improvviso l’altro giorno. Ti chiedo di scusarmi, non so cosa mi sia preso, il fatto è che mi piaci davvero tanto e forse ho avuto paura dei miei sentimenti, di quello che potrei provare in futuro. Posso comprendere il tuo dispiacere e non credere che io abbia vissuto bene questo lungo periodo di lontananza, sappi che non c’è stato secondo in cui io non ti abbia pensato e che certe sere non avrei desiderato altro che un tuo abbraccio, quando mia sorella ha dato la notizia dell’incidente di papà ho sentito un vuoto enorme, come se avessi la colpa di non essere lì vicino a lui, ti chiedo ancora scusa e te lo chiederò per l’eternità se sono improvvisamente scomparsa, non ti supplico nemmeno di provare a capirmi perché non ci sono riuscita io stessa, ti assicuro però che mio padre è una brava persona e io volevo solo stargli vicino in un momento difficile, una zia di cui non ti avevo mai parlato ci ha ospitati in un piccolo villaggio vicino a Chiang Rai, se uno dei prossimi giorni ti va possiamo fare due chiacchiere durante l’intervallo a scuola, non sono pazza :), ho bisogno di tempo e di chiarirmi le idee, penso che potremmo iniziare a sentirci di nuovo via Skype perché mi mancano molto le nostre lunghe conversazioni intercontinentali e mi manca anche un po’ Lisbona (non in inverno però!), qui è iniziata la stagione delle piogge e dei grossi serpenti scendono giù dalle montagne per cercare i topi nelle fogne, sarò sincera, su quella panchina è stato bellissimo e per poco non soffocavo dall’emozione, che stupida!, papà ora sta meglio anche se credo che non guiderà più il taxi, il futuro è un mistero per tutti ma sono onesta nel dirti che desidererei tu facessi parte del mio, se ci pensi “tu” è una parola troppo sottovalutata perché è l’unica e possibile estensione di “io”. Ora sto scrivendo da sotto le coperte, tra qualche ora sarà mattino e poco fa ho sentito su Youtube una canzone che dice “mentre ti guardo noto che il tuo equilibrio cade in fondo ad un nero caffè che fingi di dover bere in fretta prima che io ti riveli che ti ho dentro come un fuoco che odio ma che non spengo”, spero che questi versi ti arrivino ovunque tu sia adesso, se a qualche isolato da qua o dall’altra parte del mondo, non avere paura e non dimenticarmi, ti supplico, dentro di me vive la convinzione che ci incontreremo ancora, oltre lo spazio e il tempo, in altri corpi, nei nostri, nei loro: occhi negli occhi, respiri nei respiri, cuori nei cuori. 
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[1] Fernando Pessoa, Lettere alla fidanzata; Adelphi 2012

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