Non
vorrei forzare troppo il collegamento con Leviathan
(2012), un vertice assoluto degli ultimi anni e manifesto
cinematografico da magnificare, ma l’impressione è che ci sia un
link non sottovalutabile in Caniba
(2017), nella veduta del duo Lucien Castaing-Taylor-Véréna Paravel
gli scorci aperti sono squarci per ambo le opere, scontato parlare di
abissi, inevitabile ricorrere al nume tutelare Philippe
Grandieux, impressionanti i risultati ottenuti in particolare nello
sconfinato campo della suggestione. Il lavoro del 2012 ha in tal
senso una carica investente di gran lunga superiore poiché per una
propria forza interna che richiama l’originarietà della Vita (e di
riflesso della Morte) l’impatto ha portato ad una deflagrazione
esperienziale sconcertante, anche Caniba
sa però difendersi bene e pur essendo un oggetto antitetico a
Leviathan,
almeno nel set di ripresa, permette l’osservazione di un ennesimo
spaventoso Grand Canyon, questa volta umano, una testimonianza di
erosione della coscienza: Issei
Sagawa, l’antropofago assassino, è un piccolo buco nero che col
desiderio di fagocitare gli altri è finito nel limbo di un universo
anonimo, solo, malridotto, aiutato da un fratello a sua volta deviato
da pratiche di autolesionismo. Come rammenta la scritta esplicativa
in apertura LCT e VP non hanno intenzione di giustificare o
legittimare il crimine commesso da Sagawa e al contempo, aggiungo io,
non sono nemmeno interessati ad operare una sorta di riabilitazione
dell’uomo ormai ridotto in una condizione semi-larvale in preda ai
suoi vaneggiamenti, piuttosto il fine di Caniba
è
quello di utilizzare un truce e sotterraneo evento storico ruotante
attorno ad uno squilibrato per misurare la temperatura artistica a
cui si può arrivare.
E,
neanche a dirlo, la gradatura termica è notevolissima in ragione di
un approccio visivo che divelge il contenitore documentaristico
(sarebbe, in teoria, un modello molto semplice: close-up sul volto di
Sagawa e monologo dello stesso) per diramarsi in direzioni ben
più profonde, praticamente insondabili, in un moto prospettico
identico a Leviathan.
Il digitale è ora per gli autori una tavolozza da cui eliminare
tutti i colori tranne uno: il rosa, nell’impianto estetico il rosa,
pallido ed emaciato, riempie lo schermo, e, per chi scrive, non c’era
soluzione migliore: in un film che tratta il cannibalismo, la pelle,
la carne, non può che occupare uno spazio di rilievo se non, come
effettivamente è, l’intero spazio a disposizione. Il viso di
Sagawa, contornato da una perenne sfocatura che a volte lo invade
spersonalizzandolo più di quanto sia già sperso
di e da sé, è una tela aliena distesa davanti ai nostri occhi
impegnati a registrare, anche involontariamente, un ammontare
epidermico, confuso e pixelloso, che evoca il tema portante
dell’opera. In un ambiente dove ogni cosa sembra sfumare, perfino
l’orrore del maniaco sostituito da un povero vecchietto indifeso,
gli spilli di una realtà concreta (perché, come dire, quella che
vediamo non sembra nemmeno tale, e qui si rimanda alla lucida
dissertazione di Alessandro Baratti, link) si incuneano nella nostra
di pelle: il porno di Issei, le tremenda gesta disegnate in un manga,
le turbe di Jun, ma anche i ricordi del passato così stridenti
(l’apprezzamento verso la Disney) al pari dei gaudiosi filmini
casalinghi. Nella nebbia, nel mondo opaco di Sagawa l’esplorazione
del Male è, come la nozionistica insegna, una questione fin banale,
ma penetrarvi, sentirla scorrere dentro e venirne avvolti, beh, è un
esame spettatoriale altamente formativo.
Dovrei rivederlo. Ma Baratti (per nostra fortuna tutt’altro che lucido) scrive una cosa fondamentale che cancella la categoria di male, che tu ancora utilizzi. Utilizza il concetto del Reale (bontà sua in minuscolo) e stop, la recensione finisce lì. Ha colto nel segno. Non c’è altro da aggiungere. Il reale ovviamente non ha nulla che vedere con il cannibalismo, con ciò che fece Issei, ma con ciò che ci mostrano i registi. Mi ha esaltato, forse commosso, certo colpito lo sguardo di Sagawa. C’è un libretto abbastanza schifoso, non aggiunge poi molto a wikipedia, in italiano su Sagawa, se ti interessa ho il pdf e te lo invio. Se ritrovo tua mail, te lo invio. Stai bene, ciao, jean claude.
RispondiEliminaBaratti coglie sempre nel segno. D'altronde cosa si può dire di fronte al parallelo delle formine e della sabbia? Spiegami un po' meglio per favore questo concetto del reale proposto dai registi in antitesi con i fatti storici realmente (!) accaduti commessi da Issei, mi interessa molto la suddetta diade perché credo sia un aspetto importante per come e cosa voglio vedere nel cinema. La mia mail ce l'hai di sicuro.
RispondiEliminaMi chiedi di scriverti giusto due righe eh! Effettivamente sembra buttata lì, ma in realtà ho preso spunto dalla parte (per me) più interessante della recensione di Alessandro. Comunque, mi farà piacere parlarne con te. Parlarne con te, appunto, perché quel minimo di barcollante sobrietà che mi resta non mi permette di delirar su Lacan pubblicamente. Quindi, ti scrivo mail. Comunque, hai perfettamente ragione: "credo sia un aspetto importante per come e cosa voglio vedere nel cinema".
RispondiEliminaTi ho inviato la mail. Scusami se mi sono un po' dilungato. Saluti, jean claude.
RispondiEliminaReale gratitudine per la fiducia immeritatamente accordatami. Ho tutto il tempo per trasformarla in una più fondata e giustificata diffidenza. Grazie ancora a entrambi.
RispondiEliminaAlessandro
Assolutamente no. La fiducia è a tempo indeterminato. Un saluto e grazie a te.
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