giovedì 30 luglio 2020

Fires on the Plain

Se ai tempi di Kotoko (2011) predicevo un nuovo inizio per Shinya Tsukamoto in seguito ad una serie di film non propriamente memorabili, dopo la visione di Nobi (2014) la profezia sembra essersi compiuta, ma non come il sottoscritto si auspicava. Diciamo che il primo film bellico nella carriera del giapponese divide un poco nel suo svilupparsi, sebbene, comunque, uno sviluppo non ce l’abbia, il che non è nemmeno un dato negativo, ma ne dirò, ad ogni modo: il primo impatto, quello epidermico, e quindi ottico, non è dei migliori, in un’intervista su Film.it (link) il redattore definisce “stupendo” il digitale con cui l’opera è stata girata, sarà, ma a chi scrive uno degli aspetti che meno è piaciuto è esattamente quello estetico dove la resa generale in video viene appiattita da una tessitura dozzinale dovuta, si ipotizza, ad una cassetta degli attrezzi non di prim’ordine, vabbè, una volta assuefatti alla patina che non eccelle si può anche scivolare nell’umida giungla che fa da set, non c’è sorpresa però: nel senso: ciò che vediamo è ciò che è, e qui, a mio avviso, risiede il deficit principale di Nobi. Le buone intenzioni di Tsukamoto, agilmente decifrabili, dicono che la messa in scena della guerra non ha fazioni (tutti sono vittime, tutti sono carnefici) e che l’orrore del conflitto spalanca il disumano nell’umano (la questione del cannibalismo, l’ultima fermata prima della bestialità fin troppo rimarcata durante la proiezione), concetti già noti che possono anche rientrare in un progetto di tal fatta, il punto è che una volta accertate tali idee l’autore propone una macelleria di frattaglie e cervella spappolate che recintano la storia in un raccapricciante e malsano autoriflesso, Shinya pensa ad una discesa del soldato nell’Ade e Shinya riproduce sullo schermo.

Forse il cinema di Tsukamoto è sempre stato così e di conseguenza si entrerebbe in quel loop per cui alla fine chi è cambiato davvero sei tu spettatore, il tuo sentire, i tuoi bisogni, e non il regista di turno? Non saprei, di anni ne sono passati parecchi e il ricordo è oltremodo stinto, tuttavia se si ritorna a Tetsuo (1989) e alla carica sovversiva che lo permeava nonostante ogni cosa fosse sbattuta in faccia a noi, quella pellicola è, ad oggi, uno degli esemplari più travolgenti che la settima arte annoveri, ecco, scadere nel paragone (con una vetta inarrivabile poi!) è il modo più facile, nonché il meno deontologicamente corretto, per rifugiarsi – e autoconvincersi – in – e di – un giudizio, quanto voglio sostenere, al di là degli accostamenti infruttuosi, è che in Nobi si verifica il Danno per eccellenza: perché si mostra, si esibisce, si fa uno show dell’atrocità, si mette in vetrina la brutalità che appanna la logica: la fame, il sangue, il fango, i deliri, i vermi, i cadaveri, i sogni, non manca niente nel bouquet che Tsukamoto ci obbliga ad afferrare. Così, quell’assenza di sviluppo tramico per nulla da disdegnare che conferisce una dimensione astratta alla storia, rimane più che altro un accessorio che si aggancia alla carrellata di barbarie, le quali ad essere onesti possiedono anche lampi di fascino, in particolare con l’annerirsi della vicenda non è affatto male l’inserimento dei militari moribondi tra le frasche della foresta che riportano, immediatamente, alle orde zombesche degli horror occidentali. Probabilmente Tsukamoto è stato un bravo cineasta e magari lo è ancora, d’altronde alcuni lampi che riprendono il furore giovanile suggestionano, di sicuro non posso dirlo io perché una noia atavica mi invade e perché, in fin dei conti, Fires on the Plain mi è parso un prodotto figlio di un’idea superata, al limite faccio a Shinya i complimenti per la performance attoriale, cosa che già si sapeva, Tokyo Fist (1995) insegna.

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