Forse il cinema di Tsukamoto è sempre stato così e di conseguenza si entrerebbe in quel loop per cui alla fine chi è cambiato davvero sei tu spettatore, il tuo sentire, i tuoi bisogni, e non il regista di turno? Non saprei, di anni ne sono passati parecchi e il ricordo è oltremodo stinto, tuttavia se si ritorna a Tetsuo (1989) e alla carica sovversiva che lo permeava nonostante ogni cosa fosse sbattuta in faccia a noi, quella pellicola è, ad oggi, uno degli esemplari più travolgenti che la settima arte annoveri, ecco, scadere nel paragone (con una vetta inarrivabile poi!) è il modo più facile, nonché il meno deontologicamente corretto, per rifugiarsi – e autoconvincersi – in – e di – un giudizio, quanto voglio sostenere, al di là degli accostamenti infruttuosi, è che in Nobi si verifica il Danno per eccellenza: perché si mostra, si esibisce, si fa uno show dell’atrocità, si mette in vetrina la brutalità che appanna la logica: la fame, il sangue, il fango, i deliri, i vermi, i cadaveri, i sogni, non manca niente nel bouquet che Tsukamoto ci obbliga ad afferrare. Così, quell’assenza di sviluppo tramico per nulla da disdegnare che conferisce una dimensione astratta alla storia, rimane più che altro un accessorio che si aggancia alla carrellata di barbarie, le quali ad essere onesti possiedono anche lampi di fascino, in particolare con l’annerirsi della vicenda non è affatto male l’inserimento dei militari moribondi tra le frasche della foresta che riportano, immediatamente, alle orde zombesche degli horror occidentali. Probabilmente Tsukamoto è stato un bravo cineasta e magari lo è ancora, d’altronde alcuni lampi che riprendono il furore giovanile suggestionano, di sicuro non posso dirlo io perché una noia atavica mi invade e perché, in fin dei conti, Fires on the Plain mi è parso un prodotto figlio di un’idea superata, al limite faccio a Shinya i complimenti per la performance attoriale, cosa che già si sapeva, Tokyo Fist (1995) insegna.
Giovanna D'Arco al Rogo
34 minuti fa
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