Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti.
Del
materiale usato ci sono scene inedite, e plausibilmente sono anche in
maggioranza. Khrzhanovskiy si sofferma un pelo di più sulle pratiche
in laboratorio, sugli allenamenti dei quattro ceffi, su piccoli
episodi comunque ininfluenti (tipo l’affissione di uno striscione).
Ma soprattutto assegna un maggiore spazio alla relazione tra Maxim e
Vika, la responsabile della mensa, il che sancisce, ancora una
volta, di come dentro DAU
permanga uno sguardo “rosa” sui rapporti sentimentali che vengono
catturati senza filtri, anche nei momenti più intimi. Non sono
sicuro se il regista dando un tale peso alla liaison abbia voluto
sottolineare che anche un esaltato del genere può avere ancora un
cuore da qualche parte (salvo poi dimostrarsi uno spietato assassino
con la mattanza finale) o se oppure ha semplicemente immortalato gli
scampoli di un contatto fisico-emotivo avvenuto realmente dentro
l’Istituto, d’altronde il sale del progetto è proprio la
labilità del confine che separa l’impostazione dalla naturalezza,
ad ogni modo, sia la presenza di nuove sequenze che il focalizzarsi
sull’improbabile coppia, non mitiga minimamente il senso di
generale déjà
vu che si percepisce dal primo all’ultimo minuto. Sfortunatamente
con l’avvicinarsi del finale e con la sua concretizzazione, il film
diventa la copia esatta del predecessore, ad esclusione dello
sgozzamento suino, l’escalation di violenza, anticipata
dall’identica conversazione con Azhippo,
è la medesima di Degeneration,
un vero e proprio copia e incolla a dir poco evitabile. Khrzhanovskiy
ci vuol dire che con lo sterminato monte ore di girato a disposizione
non aveva altri elementi per costruire una linea narrativa originale?
Bah, New
Man
è nel puzzle-DAU
un pezzo davvero superfluo.
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