In merito al comparto narrativo assistiamo ad uno spaccato formativo che usa degli ingredienti classici: passato complicato, presente non da meno e impepata sentimentale a ravvivare un’esistenza pericolosamente anonima. Clapin tiene il tutto sotto controllo (e per questo mi sarebbe piaciuto qualche graffio inatteso), dosa i flashback che piacciono perché provenienti dall’arto mutilato, come se possedesse una sua memoria, un suo trascorso, e struttura l’infatuamento di Naoufel con quel garbo e quella delicatezza ascrivibili alle opere animate. Non voglio affermare che ci sia il pilota automatico però la progressione della vicenda è priva di particolari sussulti, una legge non scritta vuole che un rapporto, effettivo o in procinto di essere tale, subisca un’interruzione ed è ciò che accade, solo che il diniego di Gabrielle arriva forzato e fin troppo brusco, quasi fosse una svolta obbligata per legittimare l’evento-madre, ovvero l’infortunio con la sega che trancerà la mano di Naoufel. E a proposito di quest’ultima, serbo un pizzico di perplessità sul ricongiungimento con il resto del corpo, poteva esserci maggior poesia, maggior urto emotivo al posto di una riunificazione un po’ in sordina visto che il finale se lo prende Gabrielle. Il procedimento che ne consegue dove veniamo edotti del superamento di Naoufel, letteralmente: di un salto, verso un nuovo futuro non è malaccio perché gioca con la registrazione audio ascoltata dalla ragazza e i fatti come sono davvero avvenuti. È sufficiente questo “diploma di vita” che si certifica nella conclusione a soddisfare lo spettatore? Nì. Di cose dentro a Dov’è il mio corpo? ce ne sono, il mood-looser adolescenziale, la perdita, il ricordo, la voglia di sentirsi accettati, il desiderio, il sogno di un altrove e di una condivisione in questo altrove, ma sono tutte cose che nell’area animata risultano pressoché all’ordine del giorno, perciò oltre a dire che si tratta di un film carino non dico.
domenica 26 luglio 2020
Dov'è il mio corpo?
La
sorpresa è lieta, l’animatore francese Jérémy Clapin debutta nel
lungo con J’ai perdu mon corps (2019),
storia di una mano alla ricerca del proprio corpo, e proprio da qui,
da una situazione che riguarda il protagonista alle prese con se
stesso (o con una parte di sé) è doveroso partire, perché se
ripensiamo ai due cortometraggi precedenti, ovvero Une histoire vertébrale (2004) e
Skhizein (2008),
ritroviamo l’embrione di una concettualità che vede esseri umani
maschili impegnati a trovare un proprio spazio nel mondo che vivono,
e, in aggiunta, ad adattare materialmente il fisico che possiedono
alla realtà che li circonda, né più né meno del Naoufel
di questo film, un ragazzino orfano che tenta con tutte le forze di
ritagliarsi un posticino per sé (tipo un... igloo), magari con la
ragazza per cui si è preso una cotta, inoltre da Palmipédarium
(2012) sopraggiunge, anche se in modo lieve, l’afflato nostalgico
dell’infanzia qui trave portante per la delineazione psicologica
del personaggio principale. Se quindi è ravvisabile una discreta
continuità sul versante tematico, è su quello tecnico che invece
c’è una piccola rottura, vuoi probabilmente per il tempo che è
intercorso dai succitati corti, vuoi per tutta la produzione che avrà
messo a disposizione altre risorse, Dov’è
il mio corpo? presenta
un abito piuttosto curato e ordinato che si stende su una commistione
di disegni 2D e 3D, un qualcosa che avevamo già visto in un altro
lavoro animato dal titolo Junkyard
(2012). La resa complessiva è più che valida anche se in qualche
frangente mi è parso che i movimenti dei soggetti antropomorfi
fossero un pelo farraginosi, mentre di tutt’altra caratura sono le
peripezie della mano solitaria, sempre dinamiche, dall’essenza
avventurosa e gradevoli per l’ingegnosità messa in campo.
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