È facile trovarsi a metà del guado, distanti nella stessa misura da un’opinione opposta o giù di lì all’altra. L’acqua, cari amici, è tiepida. Al pari della palette di colori scelta da Ita Zbroniec-Zajt, direttrice di fotografia polacca assoldata da Frammartino per Alberi (2013), che fornisce una tessitura estetica vicina alla concezione che si ha di un’ “atmosfera” scandinava, e pari, ovviamente, all’essenza del film in sé che continua a dibattersi (ma lo si sorveglia facilmente, è docile in fondo...), a farti propendere per un’ammirazione, sebbene contenuta, verso l’ampio respiro generazionale che riesce a trasmettere impiegando appena quattro fantocci di cera, e una correlata noncuranza, ugualmente misurata, nei riguardi del disegno globale che alla fine si profila. Perfetto, ho praticamente ripetuto i concetti del paragrafo soprastante cambiando qualche parola, non è affatto un buon segno, se un film, in sede di analisi, fa scivolare nell’afasia, quindi è bene non perdere ulteriore tempo, solo una cosa mi va ancora di sottolineare: esattamente come la storia nella sua totalità si dimostra anodina pur tentando l’affondo nella tragedia dopo un baloccamento tra fiaba e memoir, anche il nodo umano (e narrativo) relativo al rapporto mnemonico-epistolare tra Eini e la Nonna si barcamena nel sentire medio, ma caruccia, comunque, la figura della nonnina sprint che si è goduta la vita più dei suoi parenti, è lei l’unico personaggio ad aver spezzato la catena dell’esistenza ritirata, e la Sköld lo rimarca con la danza nei titoli di coda.
mercoledì 8 luglio 2020
Granny’s Dancing on the Table
Due feti
riprodotti in stop-motion si strangolano nel grembo materno,
l’incipit di Granny’s Dancing on the Table (2015) detta
già dall’inizio la linea emotiva del film: è tutta una
sofferenza, trasversale e congenita, hanno sofferto le nonne,
soffrono i figli, soffriranno i nipoti. Bada però: il secondo lavoro
della svedese Hanna Sköld è improntato alla rappresentazione e
rappresentare il dolore, sport nazionale dell’arte in generale dai
tempi di Omero, rischia l’inflazione fruitiva; qui ci si può
sdoppiare come tale è la natura dell’opera, vestendo i panni del
Magnanimo: be’, però l’appaiamento tra il rivolo reale e quello
del ricordo vale una visione perché impepato da questa faccenda
dell’animazione, nei pupazzi sgraziati si modella un dramma
famigliare che, pur non c’entrandoci niente, mi ha ricordato una
possibile saga famigliare stile romanzo sudamericano, grandi colpe
che si tramandano come una malattia (la Nonna si accoppia con uno
sconosciuto, l’origine è lì), destini simili che si ripetono come
una condanna (la mamma ed Eini lontane dal focolare) e la prepotenza
degli uomini che soverchia (lo zio come il padre: è lo schiaffo che
comanda), in sostanza: un ventaglio di sentimenti tutti inclini
all’afflizione. Ma, vestendo i panni del Polemico: mmm, però se
accantoniamo l’idea di strutturare la vita della Nonna per mezzo
dei pupi quanto corrisponde in termini di buon cinema non è che si
ricorderà ad imperitura memoria, la gestione del flusso in live
action con ragazzina efebica e padre padrone pronto a farla a fette
ad ogni occasione non ha le qualità per scolpirsi nello schermo, ne
abbiamo viste troppe ormai, tra urla e sussurri, per uscirne fuori
inermi.
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