Da noi è
uscito nell’ottobre del 2019 grazie a Bompiani che credo e spero si
sobbarcherà l’onere e ovviamente l’onore di pubblicare quanto
è più possibile di questo scrittore ungherese. Perché László
Krasznahorkai è un peso massimo della letteratura contemporanea e Il
ritorno del Barone Wenckheim è
un testo assoluto a cui rivolgere tutta la nostra attenzione, il
motivo lo si può rintracciare guardandoci indietro, precisamente
agli unici altri due libri tradotti in italiano sempre da Bompiani:
Satantango e
Melancolia della resistenza
(apparso in origine sugli scaffali italici grazie alla defunta
Zandonai), ebbene Il barone,
rispetto alle due opere appena citate, è di quasi una trentina
d’anni più “giovane” e quindi scritto e pensato in una realtà
più vicina al nostro mondo odierno, e il Krasznahorkai che vi
ritroviamo è uno scrittore in splendida forma, uno che deborda, ma
per davvero, che non usa punti a capo e di conseguenza nemmeno
capoversi, sicché le sue pagine sono blocchi granitici grondanti di
parole, un profluvio di periodi-fiume difficile da equiparare allo
stile di altri colleghi di oggi (perfino Pynchon, il massimalista dei
massimalisti, tende a far rifiatare il lettore ogni tanto). La
lettura del Barone si
è rivelata molto interessante anche perché è stato il primo
contatto con Krasznahorkai non preceduto da una visione
cinematografica, non che i capolavori di Béla Tarr Satantango
(1994) e Le armonie di Werckmeister
(2000) abbiano depotenziato i loro corrispettivi stampati su carta,
però, sai com’è, vedendo si incamerano situazioni, si creano
immaginari che a volte inconsciamente entrano di forza nella
testualità della pagina, qui un tale processo non si è potuto
verificare (e il mio lato cinefilo ne è rimasto un po’
dispiaciuto, chissà cosa ne sarebbe uscito dalla cinepresa di
Tarr...) per cui il vergine tuffo nella soffocante densità di questo
romanzone ne ha implementato l’apprezzamento, fermo restando che,
in piena tradizione tematica, alla fine pur sempre della Fine si
tratta, ma all’Apocalisse conclusiva ci si arriva a piccoli passi
affastellando una coralità di personaggi che assurge essa stessa a
Personaggio Principale visto che, il timido e dimesso Barone, esce di
scena ben prima che si arrivi al termine della storia. In estrema
sintesi mi sento di dire che si tratta di un libro maiuscolo, uno dei
migliori titoli del 2019.
ALTRETTANTE SUL FILM
Verso
l’inizio si ha un tonfo al cuore, lo stesso che si prova per una
persona che una parte di te non ha mai lasciato andare via, Ádám
Breier, infatti, utilizza paraculisticamente le musiche di Mihály
Víg per introdurre il ritorno di László, ché di questo si tratta:
di un ritorno, in pratica viene instaurato un sottile gioco di
rimandi tra la narrazione del libro e il documentario facendo sì che
il Barone Wenckheim diventi Krasznahorkai che dopo molti anni fa
visita a Gyula, la sua cittadina natale. L’idea è gradevole ed è
intensificata dalla scelta di inserire una voce esterna che legge
stralci di testo aderenti alle immagini in video, però, al di là
dell’escamotage strutturale, A báró hazatér
(2018) vale una visione per la vicinanza che ci permette di avere con
uno scrittore elusivo, misterioso, ma comunque uno che è dentro la
storia del cinema autoriale recente oltre che, da anni, un papabile
per il premio Nobel. Perciò, nonostante Breier ci dica che tutte le
richieste di mostrare al pubblico il lato umano di László furono
negate da lui stesso, Krasznahorkai-persona emerge eccome e ci dà
modo di comprendere il substrato autobiografico del Barone
(i luoghi sulla mappa del libro e su quella della realtà: sono i
medesimi) insieme a molte altre cose, tipo il racconto sui suoi
genitori, il fatto che da giovane suonava in una rock band (ma ce lo
vedete?!), il primo incontro con Tarr (considerato a primo impatto un
modaiolo che ascoltava David Bowie) e tanti altri dettagli che
aiutano a capire quali sono i confini (che forse nemmeno ci sono)
della letteratura, concetto trasmessoci dall’ultimo affascinante
monologo pronunciato da quest’uomo dagli occhi tersi come un cielo
in estate. Se A báró hazatér ha
un limite è che può essere fruito appieno solo da chi ha confidenza
con certe manifestazioni audiovisive provenienti dall’Ungheria
dagli anni ’90 in poi, è anche vero che chi non ha avuto contatti
con la triplice alleanza Tarr-Krasznahorkai-Víg ha in seno un limite
ancor più paralizzante che andrebbe divelto il più presto
possibile, lo si dice per il loro bene.
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