mercoledì 8 aprile 2020

Ad Astra

 
Il Paul Tunge di Kano (2011) ci conduce in un tour esplorativo/contemplativo di alcune chiese (ben quattordici a leggere i crediti finali) sparse sul territorio norvegese. Parliamo di costruzioni avvenute nel dopoguerra e che esteticamente non hanno affinità con l’idea classica che si ha di una chiesa, quelli ripresi da Tunge sono tutti edifici moderni dalle forme avveniristiche che si protendono verso il cielo a mo’ di vele riflettenti. L’impressione che ho ricavato da Ad Astra (2016) è quella di un’osservazione artistica che vuole considerare questi templi contemporanei delle vere e proprie cattedrali nel deserto, luoghi imponenti ma abbandonati, o meglio: non frequentati. Potrebbe essere qua l’idea alla base del corto, nell’assenza di fedeli (non ci sono esseri umani, a parte uno affetto dalla sindrome di Down che mi piace immaginare nelle vesti di custode), nello smarrimento di una religiosità, qualunque cosa possa significare, rimangono dei palazzi maestosi, ma vuoti, o al massimo circondati da cani che guardano con sospetto la fluttuante videocamera di Tunge. Per paradosso, pur occupando uno spazio fisico ben evidente (eccone una al di là della finestra, eccone un’altra che svetta in fondo alla strada innevata), le suddette chiese si ergono ad esplicita mancanza, sono totem cavi a cui, non ci si stupirebbe, nessuno dà conto.

Tunge, aiutato in regia dal collega Egil Håskjold Larsen, decide di usare un approccio iper-dinamico per le riprese, non c’è stasi, c’è sempre movimento, morbido, galleggiante, un po’ malickiano se mi passate l’accostamento. È un vagare che ha del fantasmatico e che riesce a solleticare stati d’animo anche divergenti tra loro, se la panoramica degli immobili religiosi arriva ad essere quasi rilassante grazie all’interessante comparto sonoro elettronicamente graffiato per mano di Kim Hiothøy, le inquadrature rovesciate, l’ubriacante giravolta verso il finale (entrambe accompagnate da musiche adeguate), danno il la ad una strisciante inquietudine che trova approdo nell’inaspettata apparizione di una bara (bianca, per giunta), una visione che da qualche parte, una parte interiore e intima, chiude il cerchio di quel vagabondare ectoplasmico citato poc’anzi. E che tali sensazioni e pensieri scaturiscano da un’opera in cui, brutalmente, ci sono solo delle chiese e un tizio che si è messo in testa di immortalarle non dispiace affatto, il cinema è liquido e si infiltra dove meno te lo aspetti, anche in uno studio visivo di matrice architettonica.

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