Il Paul Tunge di Kano
(2011) ci conduce in un tour esplorativo/contemplativo di alcune
chiese (ben quattordici a leggere i crediti finali) sparse sul territorio norvegese. Parliamo di costruzioni avvenute nel dopoguerra
e che esteticamente non hanno affinità con l’idea classica che si
ha di una chiesa, quelli ripresi da Tunge sono tutti edifici moderni
dalle forme avveniristiche che si protendono verso il cielo a mo’
di vele riflettenti. L’impressione che ho ricavato da Ad Astra
(2016) è quella di un’osservazione artistica che vuole considerare
questi templi contemporanei delle vere e proprie cattedrali nel
deserto, luoghi imponenti ma abbandonati, o meglio: non frequentati.
Potrebbe essere qua l’idea alla base del corto, nell’assenza di
fedeli (non ci sono esseri umani, a parte uno affetto dalla sindrome
di Down che mi piace immaginare nelle vesti di custode), nello
smarrimento di una religiosità, qualunque cosa possa significare,
rimangono dei palazzi maestosi, ma vuoti, o al massimo circondati da
cani che guardano con sospetto la fluttuante videocamera di Tunge.
Per paradosso, pur occupando uno spazio fisico ben evidente (eccone
una al di là della finestra, eccone un’altra che svetta in fondo
alla strada innevata), le suddette chiese si ergono ad esplicita
mancanza, sono totem cavi a cui, non ci si stupirebbe, nessuno dà
conto.
Tunge,
aiutato in regia dal collega Egil Håskjold Larsen, decide di usare
un approccio iper-dinamico per le riprese, non c’è stasi, c’è
sempre movimento, morbido, galleggiante, un po’ malickiano se mi
passate l’accostamento. È un vagare che ha del fantasmatico e che
riesce a solleticare stati d’animo anche divergenti tra loro, se la
panoramica degli immobili religiosi arriva ad essere quasi rilassante
grazie all’interessante comparto sonoro elettronicamente graffiato
per mano di Kim Hiothøy, le inquadrature rovesciate, l’ubriacante
giravolta verso il finale (entrambe accompagnate da musiche adeguate),
danno il la ad una strisciante inquietudine che trova approdo
nell’inaspettata apparizione di una bara (bianca, per giunta), una
visione che da qualche parte, una parte interiore e intima, chiude il
cerchio di quel vagabondare ectoplasmico citato poc’anzi. E che
tali sensazioni e pensieri scaturiscano da un’opera in cui,
brutalmente, ci sono solo delle chiese e un tizio che si è messo in
testa di immortalarle non dispiace affatto, il cinema è liquido e si
infiltra dove meno te lo aspetti, anche in uno studio visivo di
matrice architettonica.
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