Non ho letto
il Martin Eden di Jack London ma ho visto tutti (esclusi i
cortometraggi) i lavori di Pietro Marcello, per cui in materia
cinematografica sento di poter ragionare su basi più o meno solide e
la prima cosa che mi viene da dire è che me lo aspettavo, sì, mi
aspettavo che Marcello si volgesse completamente alla finzione perché
c’erano stati dei segnali molto forti nel precedente Bella e perduta (2015), per lui, essenzialmente un documentarista a cui
però non è mai piaciuto troppo stare dentro i paletti categoriali,
è una novità di rilievo: il suo Martin Eden (2019) è un
film di scrittura (e anche sulla scrittura, ovviamente), di cast, di
narrazione, di sviluppo, di sottotesti, è quindi un’opera
dall’impostazione classica che si rifà a sua volta ad un cinema
classico che però, nel suo dispiegarsi, nel suo mostrarsi, nel suo
raccontarsi diluisce la propria classicità, la stempera,
letteralmente, con accorgimenti che confermano la voglia che ha
Marcello di non sedersi dentro ad un’etichetta. La considerazione
più istintiva, quella che concerne l’estetica, ci fa riflettere
sulle capacità del regista che ha trovato in una pellicola dalla
pasta vintage il puntuale contrappunto alle immagini d’archivio
disseminate con perizia nel girato, in alcuni casi la contiguità è
tale che si fatica a capire quando finiscono i filmati di repertorio
e quando inizia la traccia principale del film, ma ciò non stupisce
nemmeno troppo perché comunque Marcello, se ci ricordiamo anche de
La bocca del lupo (2009), è uno che sa attirare lo sguardo, è
un’abile manipolatore e lo dimostra anche qui dove il raggio di
azione, per via dell’ingessatura finzionale, non poteva che essere
maggiormente limitato.
Se gli
inserti doc rapportati al flusso canonico vivacizzano la situazione,
è anche il flusso stesso, e parlo proprio della sua essenza, a
destabilizzare, ancora di più, i contorni tradizionali.
L’ambientazione storica che inizialmente ci farebbe orientare in un
periodo collocabile verso i primi del novecento, nel suo prosieguo è
alterata in modo da rendere la ricostruzione atemporale, praticamente
astratta (succedeva in modo un po’ confuso anche nel film
precedente), senza calcare la mano (e ciò è sempre un bene), in
modo appena percettibile, Martin Eden scivola
in sordina da un periodo all’altro del ventesimo secolo, dagli anni
’10, in un battibaleno, si passa agli anni ’60-’70 come se
fossimo in un film di Elio Petri, ma, ripeto, la traslazione è
minima, rischia di sfuggire, eppure è presente, è lì, e sono
presenti, anche, dei salti mortali in avanti fino ai giorni nostri
con quelli che potremmo definire degli OOPArt [1] che non rientrano
nella linearità della storia, si veda una specie di essere
salviniano felpa-munito o delle persone di colore che bivaccano sulla
spiaggia, sono scarti che ci allontanano con moderata sorpresa dallo
standard preventivato, ossia la trasposizione di un testo datato
1909, ergo: ben vengano.
Ecco,
per chi scrive gli aspetti che suscitano vero interesse sono quelli
esplicitamente tecnici sopraccitati, ok, le storie sono belle da
sentire ma ce le hanno già raccontate tutte, difatti anche per
Martin Eden in questo
settore non vi è nulla che possa farci ribaltare dalla sedia. Di
carne al fuoco ce n’è in abbondanza: la prospettiva del riscatto
sociale di un semplice marinaio che attraverso la letteratura
realizza i propri sogni è carina,
la trafila dello scrittore in erba che si trasforma in scrittore di
successo è godibile,
i tormenti interiori intrecciati a quelli sentimentali sono
gradevoli, le
incursioni filosofiche che si fanno sociologiche che si fanno
politiche sono dignitose,
il confronto impari tra un libero pensatore ed il sistema culturale
che di culturale finisce di avere poco è didattico,
Luca Marinelli è bravissimo,
però tale fuoco non arde intensamente, non è un incendio che
divampa, è una fiammella sotto controllo, anzi sotto il
controllo dell’impianto finzionale e la carne non si cuoce a dovere
e noi rimaniamo con un senso di illusoria sazietà.
_____________________
[1]
Out Of Place ARTifacts,
ovvero oggetti rinvenuti nel presente che non sembrano far parte del
passato da cui giungono. Pseudo-scienza, concordo, ma pur sempre
affascinante.
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