Dal regista di Homo Sapiens (2016), l’austriaco
Nikolaus Geyrhalter, recuperiamo un lavoro del 2011 intitolato
Abendland e se da
bravi scolaretti apriamo Google traduttore per infilarci dentro
proprio la parola tedesca “abendland” scopriamo che il suo
significato in italiano è “occidente”, poi, sempre da diligenti
allievi quali siamo, associamo il titolo alla locandina che ci mostra
il Vecchio Continente in tutta la sua notturna bellezza per ottenere
delle coordinate orientative: siamo in Europa, ma la didascalia
finisce qua, Geyrhalter, vero globetrotter della regia, non pone mai
sul suo lavoro il benché minimo commento, è un documentario che
pota tutte quelle interferenze esplicative che solitamente sono parte
integrante del genere di riferimento, ed un’assenza di
indirizzamenti precisi è una bella occasione per uscire dalla
comfort zone spettatoriale, sicché cosa è utile desumere da
Abendland? Con gli
occhi di una persona che vive negli anni ’20 queste immagini,
sebbene risalenti a non più di un decennio fa, hanno un che di
antiquato, è più una sensazione, un’idea che di riflesso
certifica come i nostri tempi, grazie alla tecnologia, viaggiano ad
un ritmo infernale, l’altra faccia della medaglia, che si evince
dalla messa in serie di Geyrhalter, è che comunque, a prescindere da
un progresso che invecchia l’estetica nel giro di due lustri, ci
sono situazioni, e problematiche, che permangono, che rispetto ad
un’evoluzione circostante non solo ristagnano ma si ripropongono,
magari sotto forme e in frangenti diversi senza però perdere la loro
cifra impattante.
Perché
tra le molteplici sequenze lavorative che Geyrhalter propone c’è
una sorta di filo conduttore che si estrapola dalla lunga carrellata
in video, infatti, pur assistendo alle professioni più disparate
(camerieri all’Oktoberfest; operai in una aerostazione; preti in
udienza dal papa; operatori telefonici; inservienti di una casa di
risposo, eccetera eccetera), ecco, nella ripresa di queste persone
affaccendate a svolgere il proprio mestiere ne spiccano altre
impegnate in mansioni differenti che però orbitano in una vasta area
inerente a tematiche come la sicurezza pubblica, il controllo,
l’ordine cittadino e il monitoraggio. L’imbeccata ce la dà la
prima scena con un tizio che dentro ad un camioncino scruta con una
telecamera il nulla che lo circonda, poi, disseminati qua e là
durante la proiezione, faremo conoscenza con poliziotti, guardie,
addetti del settore o simili. La domanda che sorge è fino a che
punto un iper-controllo di siffatta portata può considerarsi lecito,
etico (tanto per dire, al tempo di
Abendland i cosiddetti
captatori informatici non erano così in auge come ora, giusto a
rimarcare come le cose possano stravolgersi in fretta), al pari di
una iper-protezione che ci fa sentire tranquilli e al sicuro, ma al
sicuro da chi? Uno spunto di riflessione ricade sull’insoluta
questione dei migranti, una ferita difficilmente medicabile che
abbraccia una complessità di scenari inimmaginabili (c’è un
dialogo interessante tra un ragazzo nigeriano e l’incaricata di
un’organizzazione umanitaria), Geyrhalter instilla gocce di questa
complessità sociale e politica che si palesa ogni giorno sul
territorio europeo (non solo migranti, ma anche, ad esempio,
manifestanti pro/contro-qualcosa). Il fatto è che quando si
verificano accadimenti straordinari come un attentato terroristico o
un virus invisibile capaci di distruggere la quiete continentale
improvvisamente non ci sentiamo più al sicuro, basta poco per
ribaltare la percezione del pericolo, avvertiamo protezione solo fino
a che gli elementi esterni sono lontani da noi, se bussano all’uscio
di casa: aiuto! E allora il massiccio dispiego di forze che Abendland
mostra a che serve? Fedele alla linea Geyrhalter non dà riscontro
preferendo inoltrarsi nell’ambiguo finale di una folla danzante
incurante di tutto e di tutti.
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