domenica 12 aprile 2020

Abendland

Dal regista di Homo Sapiens (2016), l’austriaco Nikolaus Geyrhalter, recuperiamo un lavoro del 2011 intitolato Abendland e se da bravi scolaretti apriamo Google traduttore per infilarci dentro proprio la parola tedesca “abendland” scopriamo che il suo significato in italiano è “occidente”, poi, sempre da diligenti allievi quali siamo, associamo il titolo alla locandina che ci mostra il Vecchio Continente in tutta la sua notturna bellezza per ottenere delle coordinate orientative: siamo in Europa, ma la didascalia finisce qua, Geyrhalter, vero globetrotter della regia, non pone mai sul suo lavoro il benché minimo commento, è un documentario che pota tutte quelle interferenze esplicative che solitamente sono parte integrante del genere di riferimento, ed un’assenza di indirizzamenti precisi è una bella occasione per uscire dalla comfort zone spettatoriale, sicché cosa è utile desumere da Abendland? Con gli occhi di una persona che vive negli anni ’20 queste immagini, sebbene risalenti a non più di un decennio fa, hanno un che di antiquato, è più una sensazione, un’idea che di riflesso certifica come i nostri tempi, grazie alla tecnologia, viaggiano ad un ritmo infernale, l’altra faccia della medaglia, che si evince dalla messa in serie di Geyrhalter, è che comunque, a prescindere da un progresso che invecchia l’estetica nel giro di due lustri, ci sono situazioni, e problematiche, che permangono, che rispetto ad un’evoluzione circostante non solo ristagnano ma si ripropongono, magari sotto forme e in frangenti diversi senza però perdere la loro cifra impattante.

Perché tra le molteplici sequenze lavorative che Geyrhalter propone c’è una sorta di filo conduttore che si estrapola dalla lunga carrellata in video, infatti, pur assistendo alle professioni più disparate (camerieri all’Oktoberfest; operai in una aerostazione; preti in udienza dal papa; operatori telefonici; inservienti di una casa di risposo, eccetera eccetera), ecco, nella ripresa di queste persone affaccendate a svolgere il proprio mestiere ne spiccano altre impegnate in mansioni differenti che però orbitano in una vasta area inerente a tematiche come la sicurezza pubblica, il controllo, l’ordine cittadino e il monitoraggio. L’imbeccata ce la dà la prima scena con un tizio che dentro ad un camioncino scruta con una telecamera il nulla che lo circonda, poi, disseminati qua e là durante la proiezione, faremo conoscenza con poliziotti, guardie, addetti del settore o simili. La domanda che sorge è fino a che punto un iper-controllo di siffatta portata può considerarsi lecito, etico (tanto per dire, al tempo di Abendland i cosiddetti captatori informatici non erano così in auge come ora, giusto a rimarcare come le cose possano stravolgersi in fretta), al pari di una iper-protezione che ci fa sentire tranquilli e al sicuro, ma al sicuro da chi? Uno spunto di riflessione ricade sull’insoluta questione dei migranti, una ferita difficilmente medicabile che abbraccia una complessità di scenari inimmaginabili (c’è un dialogo interessante tra un ragazzo nigeriano e l’incaricata di un’organizzazione umanitaria), Geyrhalter instilla gocce di questa complessità sociale e politica che si palesa ogni giorno sul territorio europeo (non solo migranti, ma anche, ad esempio, manifestanti pro/contro-qualcosa). Il fatto è che quando si verificano accadimenti straordinari come un attentato terroristico o un virus invisibile capaci di distruggere la quiete continentale improvvisamente non ci sentiamo più al sicuro, basta poco per ribaltare la percezione del pericolo, avvertiamo protezione solo fino a che gli elementi esterni sono lontani da noi, se bussano all’uscio di casa: aiuto! E allora il massiccio dispiego di forze che Abendland mostra a che serve? Fedele alla linea Geyrhalter non dà riscontro preferendo inoltrarsi nell’ambiguo finale di una folla danzante incurante di tutto e di tutti.

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