Noto in giro che parecchi
siti italiani hanno letteralmente massacrato Mein Bruder heißt
Robert und ist ein Idiot (2018)
di Philip Gröning, eviterò di fare un ragionamento un po’
tendenzioso del tipo, ehi, non è che il regista ha voluto
esattamente suscitare
in voi il disprezzo e l’irritazione che avete provato durante la
visione? No, mi pare sia una veduta troppo cieca, limitata,
soprattutto per un film del genere che mette in collisione delle
altezze esistenzialistiche con delle orripilanti bassezze. A mio modo
di vedere l’opera di Gröning rappresenta una bella sfida, ardua,
sì, ma bella, il che non significa che My Brother’s
Name... sia un bel film, come
non si nega che valga almeno la pena rifletterci sopra. Le
similitudini con il precedente La moglie del poliziotto
(2013) ci sono, in particolare in quello che pare essere uno degli
obiettivi di Gröning, ovvero raccontarci il lato oscuro dell’essere
umano e la violenza che in lui alberga, la differenza tra le due
pellicole sta nelle modalità che ci fanno pervenire a tale disamina:
il lavoro del 2013 aveva una struttura più immediata e si prestava
ad una lettura più accessibile, lì c’era un claustrofobico
ritratto di violenza domestica, punto, era, se permettete, facile
arrivare ad una comprensione perché era parimenti semplice (tra
virgolette, parliamo comunque di un monolite autoriale di quasi tre
ore) accettare il disegno globale, ok, in estrema sintesi Gröning
aveva voluto mostrarci la brutalità maschile dentro una relazione
avariata. Qui le cose sono maggiormente complicate, sì il punto di
arrivo è equiparabile (abbiamo di nuovo un rapporto famigliare al
centro della scena e nuovamente da questo rapporto erutta una ferocia
incontrollabile), però la prima sensazione è che manchino delle
basi forti, delle valide premesse che possano legittimare
l’escalation di cattiveria. Ciò lo si pensa subito, stizziti, a
caldo, ma dopo, immergendoci ulteriormente nella questione, altre
porte interpretative con annessi interrogativi si spalancano.
Un
male che pare affliggere My Brother’s Name... riguarda
l’ostinato mood filosofico che la sceneggiatura (scritta insieme a
Sabine Timoteo che si è occupata di tratteggiare Elena) ha cucito
sui due protagonisti, non possiedo le competenze necessarie per
sostenere se il per nulla stupido Robert dica delle panzane o meno, ma
tutto il suo ciarlare risulta vacuo e ridondante, sterile, futile,
incompatibile con la deriva sanguinolenta che prenderanno i fratelli.
Tempo, esistenza, speranza, vita, morte, argomenti di un certo
livello che passano così, come slogan per riempirsi la bocca o per
infarcire di contenuti un oggetto filmico che, mettendo poi in scena
stupri e omicidi, li annienta in un istante, eppure puntare erroneamente il dito
su una falsa intellettualità o su un’immotivata malignità sono
accuse che senza pensarci troppo è quasi automatico sostenere, e lo
dico pur ammettendo che Gröning si lascia andare a delle gratuità
dove in effetti si può comprendere l’indignazione di quel pubblico
che a Berlino ’18 abbandonò la sala prima della fine (sicuramente
la sequenza dell’incesto avrà dato il colpo di grazia), io invece
proporrei di concentrarci un attimo su Robert ed Elena. Chi sono?
Dove sono? Dove stanno andando? Sono due ragazzetti (non all’anagrafe
del reale, lui è dell’89 mentre lei dell’83) ed essendo tali,
proprio nella loro ontologia, vivono un tornado indefinibile di
sentimenti, e lo dico subito: dall’angolazione del film
generazionale Gröning se l’è giocata alla grande perché ha
mimetizzato la spinta coming of age in un calderone di tematiche che
sviano l’attenzione.
In
realtà, almeno la realtà che ci ha visto chi scrive, il legame tra
i due gemelli, le interazioni che hanno, a volte tenere a volte
iraconde, il momento di passaggio che stanno vivendo (lei è in
procinto di dare l’ultimo esame, lui dovrà andare o tornare in
Spagna), gli impulsi sessuali e gli amori tormentati, la gelosia,
l’attaccamento, la morbosità, la fiducia, il venirsi incontro
(immagine chiave del film), sono gli indicatori di un termometro
adolescenziale che sale e che scende al di là di ogni possibile
controllo, più che due persone provenienti dal medesimo grembo, sono
i simboli dell’età che hanno e del periodo che vivono. Se poi li
caliamo nell’ambiente pensato da Gröning (e anche costruito, non
trovando una location adatta ha deciso di edificarsela), anonimo ed
ignoto, ecco che l’intera vicenda assume caratteristiche astratte,
ci sono Robert ed Elena, ma fino ad un certo punto, quello che li
spersonalizza, che li fa dimettere dai ruoli che hanno, che li fa diventare due
acerbe entità in preda all’istinto senza perdere la cifra
immaginifica della giovinezza (Elena, pur avendo ucciso a sangue
freddo il benzinaio, ripeterà con convinzione che la pistola è
finta), uccidere, amarsi, sono solo giochi (non c’è differenza tra
sparare con il super liquidator e con una rivoltella vera), tra una
pagina di Heidegger e l’altra, tra il piacere di essere liberi e il
desiderio di essere adulti (il rossetto). Anche da una prospettiva
esegetica come quella appena descritta, Gröning calca la mano sul
fatto che, sebbene in una dimensione concettuale, la frontiera
dell’umano a cui è interessato rimane il buco nero di una violenza
insita anche in due soggetti inizialmente insospettabili perché
affrancati dalle brutture di un’adultità che invece arriva
inesorabile con quell’ultimo sguardo in camera, figlio del medesimo
che chiudeva La moglie del poliziotto,
dove Elena in lacrime, in una presa di coscienza, a transizione
appena avvenuta, si e ci chiede: ma che cosa abbiamo fatto?
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