Non ci si
aspettava nient’altro che non fosse ciò che Depressive Cop
(2017) è: ovvero una piccola via di accesso all’immaginario di
Bertrand Mandico. Questa volta il regista nato a Tolosa si impegna
nell’allestimento di un’atmosfera da polar, sì, ma da polar in
stato alterato dove il bianco e nero di una località marina battuta
dal vento si accompagna, in particolare nel finale, a delle riprese
in bassa qualità che sembrerebbero girate da una punk band strafatta
di qualche droga sintetica sul finire degli anni ’80. Per la
cronaca, sebbene la trama rimanga un mero sfiatatoio delle turbe di
Mandico, qui abbiamo un poliziotto che indossa una maschera di gomma
e una donna (sempre Elina Löwensohn, onnipresente figura femminile)
che ha smarrito la figlia (anch’essa interpretata dalla Löwensohn).
Nei dodici minuti complessivi, mandichiani fino al midollo, il
personaggio materno oscilla, come al solito per l’autore, in un
limbo di perversione e follia, attributi che, e credo possiate
concordare, spiccano non solo come caratteristiche specifiche della
donna presente nel corto ma,
allargando la visuale, anche come condizione generale – suppongo –
dell’intera filmografia. I lavori di Mandico sono femminei e ci
parlano attraverso una sensualità sordida, impura, tutt’altro che
raffinata ma, e magari proprio grazie a ciò, efficace. Gli uomini,
nel mondo strabordante così creato, sono soggetti accessori se non
del tutto assenti, oppure presenti ma sotto spoglie muliebri, vedi
The Wild Boys (2017).
E a
proposito del lungometraggio-summa, Depressive Cop,
per via dell’isola che trascende il ruolo di semplice
ambientazione, sembra avere un certo feeling con la suddetta opera
coeva, al contempo però, vuoi per il formato ridotto o vuoi per le
precise intenzioni del regista, la traccia narrativa (la ricerca di
questa figlia-pirata) si diluisce più del solito nel pozzo oscuro e
perturbante in cui tutte le storie di Mandico finiscono (perché è
da lì che provengono, quindi non si scappa). Che cosa succede
allora? La domanda del rispettoso spettatore razionale non può che
rimanere inevasa, il punto nodale che bisogna capire e, se lo si
vuole, anche accettare, è che i titoli di Mandico, soprattutto i
cortometraggi, vanno presi come performance estetiche dove si porta
avanti un’idea di cinema criticabile o meno che ad ogni modo,
banalmente, è pur sempre un’idea, peraltro piuttosto originale
perché il caro Bertrand, al netto di plausibili influenze che ormai
ha fatto proprie, rimane un unicum nel
panorama mondiale. Da ciò si trae la risposta al quesito posto poco
sopra, no, non si sa bene cosa accade nonostante sullo schermo ci sia
parecchio movimento, ma le congetture in ottica tramica sono
effimere, se ci si riesce a liberarsene, ed è un monito che vale per
tutto, potrebbe affacciarsi del timido godimento.
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