lunedì 20 aprile 2020

Depressive Cop

Non ci si aspettava nient’altro che non fosse ciò che Depressive Cop (2017) è: ovvero una piccola via di accesso all’immaginario di Bertrand Mandico. Questa volta il regista nato a Tolosa si impegna nell’allestimento di un’atmosfera da polar, sì, ma da polar in stato alterato dove il bianco e nero di una località marina battuta dal vento si accompagna, in particolare nel finale, a delle riprese in bassa qualità che sembrerebbero girate da una punk band strafatta di qualche droga sintetica sul finire degli anni ’80. Per la cronaca, sebbene la trama rimanga un mero sfiatatoio delle turbe di Mandico, qui abbiamo un poliziotto che indossa una maschera di gomma e una donna (sempre Elina Löwensohn, onnipresente figura femminile) che ha smarrito la figlia (anch’essa interpretata dalla Löwensohn). Nei dodici minuti complessivi, mandichiani fino al midollo, il personaggio materno oscilla, come al solito per l’autore, in un limbo di perversione e follia, attributi che, e credo possiate concordare, spiccano non solo come caratteristiche specifiche della donna presente nel corto ma, allargando la visuale, anche come condizione generale – suppongo – dell’intera filmografia. I lavori di Mandico sono femminei e ci parlano attraverso una sensualità sordida, impura, tutt’altro che raffinata ma, e magari proprio grazie a ciò, efficace. Gli uomini, nel mondo strabordante così creato, sono soggetti accessori se non del tutto assenti, oppure presenti ma sotto spoglie muliebri, vedi The Wild Boys (2017).

E a proposito del lungometraggio-summa, Depressive Cop, per via dell’isola che trascende il ruolo di semplice ambientazione, sembra avere un certo feeling con la suddetta opera coeva, al contempo però, vuoi per il formato ridotto o vuoi per le precise intenzioni del regista, la traccia narrativa (la ricerca di questa figlia-pirata) si diluisce più del solito nel pozzo oscuro e perturbante in cui tutte le storie di Mandico finiscono (perché è da lì che provengono, quindi non si scappa). Che cosa succede allora? La domanda del rispettoso spettatore razionale non può che rimanere inevasa, il punto nodale che bisogna capire e, se lo si vuole, anche accettare, è che i titoli di Mandico, soprattutto i cortometraggi, vanno presi come performance estetiche dove si porta avanti un’idea di cinema criticabile o meno che ad ogni modo, banalmente, è pur sempre un’idea, peraltro piuttosto originale perché il caro Bertrand, al netto di plausibili influenze che ormai ha fatto proprie, rimane un unicum nel panorama mondiale. Da ciò si trae la risposta al quesito posto poco sopra, no, non si sa bene cosa accade nonostante sullo schermo ci sia parecchio movimento, ma le congetture in ottica tramica sono effimere, se ci si riesce a liberarsene, ed è un monito che vale per tutto, potrebbe affacciarsi del timido godimento.

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