Se ne parla
malino un po’ ovunque di Historia del miedo (2014),
però, il consiglio, è come sempre quello di non dare troppo ascolto
agli altri, compreso il sottoscritto, ma di prestare attenzione a ciò
che sentite voi, e, giusto per informazione di servizio, quanto segue
è brevemente il mio personale punto di vista: sì, il film ha dei
difetti, il principale è forse l’assenza di una concreta
profondità semantica, percepibile ed in nuce,
eppure priva di quell’ampio respiro che virtualmente avrebbe. Il
materiale che Naishtat maneggia ha una temperatura alta come i
misteriosi roghi che si alzano dal quartiere residenziale: critica ad
un certo tipo di società, paralleli sulla situazione economica
dell’Argentina, ritratti sardonici di alcuni status sociali (il
“gioco” conclusivo durante la cena è un mettere a nudo i
commensali proprio da tale angolazione), si sfiora tutto questo, lo si
tange, si arriva alle soglie di un possibile ingresso fruitivo e poi
ci si blocca, il rito non riesce a compiersi, perché? Approccio
troppo estroso? Autorialismo sterile? Assenza di un filo conduttore
davvero avvolgente? Tutto può essere al pari del suo contrario,
limitiamoci ad elencare ancora una carenza di tipo concettuale:
sebbene l’impianto dell’opera si presenti molto scombiccherato vi
sono momenti che risultano fin troppo diretti, che si velano senza
riuscire a scrollarsi di dosso la loro cifra esplicativa, è il caso
della scelta di utilizzare i black-out come metafora di un
affievolimento più grande e sconosciuto, in tale ottica il finale
acutizza l’idea di un buio incombente e non si può negare che le
cose funzionino anche, tuttavia si ha l’impressione che avrebbero
potuto funzionare ancora meglio.
La
visione de El Movimiento (2015)
aveva trasmesso a chi scrive l’idea che Benjamín Naishtat fosse un
regista intraprendente e per nulla coricato su quegli schemi che
inaridiscono il cinema, il lungometraggio di debutto, depurato delle
imperfezioni di cui sopra, non fa che confermare la suddetta statura,
Naishtat affronta con discreta personalità la strada di un impietoso
disegno contro la pigra borghesia, cita e raccoglie al di là
dell’Atlantico (c’è Haneke alla fine) senza comunque infastidire
o scadere nella blanda riproposizione, vieppiù che l’apparato
estetico è punteggiato da soluzioni visive mica male, si prenda
l’interessante incipit con la ripresa aerea o il sopraccitato
ultimo pasto privo di luce, ma soprattutto, sebbene il film incameri
minuto dopo minuto un progressivo scollamento pressoché insanabile,
possiede un’onda silente che sa sbattere sulla superficie delle
cose provocando effetti non così sottovalutabili. Prima mi chiedevo
se era presente un trait d’union atto
a fornire una significazione coagulante, diciamo che il titolo
potrebbe darci una mano, sarebbe infatti la “paura” il fattore
che connette i personaggi sullo schermo, i detrattori obietteranno
che però l’allestimento raggiunge una sgangheratezza incapace di
avere un ritorno, nemmeno se si certifica l’esistenza di
frammenti che riescono ad instaurare un disagio, un malessere, una
scomodità e via dicendo. Per quanto mi riguarda il baricentro sono
proprio i frammenti: se proposti come Naishtat fa, ovvero inseriti in
una cornice artistica di medio-alta fattura ed equipaggiati di un
contenuto appetibile (fino a quando non si scivola nella didascalia),
allora del spasmodico bisogno di un solido flusso aggregante ne
faccio anche a meno, non sempre accade, ricordo ad esempio Free Fall (2014) di Pálfi la cui
natura segmentata mi fu indigesta, ma quando accade sono contento di
fare la conoscenza del Benjamín Naishtat di turno.
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