sabato 18 aprile 2020

Ma' Rosa

L’ultimo incontro ravvicinato che ho avuto con Brillante Mendoza risale a Thy Womb (2012), un film, per ciò che ricordo (poco), in linea con la sua idea di cinema immersa nel reale, e non una realtà qualunque ma quella povera e problematica delle Filippine. Tenendo bene a mente queste caratteristiche connotanti si può subito dire che Ma’ Rosa (2016) continua a battere il medesimo percorso intrapreso dal regista nato a San Fernando fin dagli albori, ed estromettendo un paio di dimenticabilissimi titolacci iniziali, col tempo Mendoza ha affinato il suo sguardo specializzandosi in quel cinema-del-reale che vanta fior fiore di esponenti in tutto il globo. Oh, il signor Brillante non è un’esteta, almeno non nell’accezione classica che si ha del termine, sebbene i suoi lavori un’estetica ce l’abbiano, e anche piuttosto definita, ma si tratta di apparati formali che, per via di budget molto risicati (ad esclusione – presumo – di Captive, 2012), non possono certo essere definiti “belli”, ciononostante una bellezza ci arriva e tale bellezza si può desumere dalla verità delle cose che si susseguono sullo schermo al ritmo della vita, magari in un quartiere disagiato di Manila, magari dentro ad una famiglia che gestisce un negozietto e che per campare spaccia droga sottobanco, magari nell’omerica serata dentro agli uffici della polizia locale, e quindi succede che dal nulla veniamo catapultati nell’esistenza di alcune persone in lotta per la sopravvivenza urbana, niente sembra facile per loro e la prassi mendoziana, che da buon testimone oculare si interessa a mostrarci quanto più gli riesce, si esalta nelle tensioni, nei nervosismi, nelle paure dell’istante, nelle concitazioni, nei raptus, nei blitz notturni sotto la pioggia scrosciante. La formula è assodata, se la conoscete saprete già in anticipo di che pasta è fatto Ma’ Rosa.

Ecco, se Tarantino, e non solo lui, era rimasto impressionato dalla visione di Kinatay (2009), lo si doveva probabilmente ad un effetto novità, ad un approccio alla materia filmata in un dato contesto geografico che ci aveva stuzzicato il palato, il punto è che poi Mendoza si è autorecintato in uno stile che da una parte lo identifica e che dall’altra lo rende un po’ prevedibile, anzi no: che lo rende meno efficace, meno potente di quanto potrebbe essere. La riproposizione di un usus scribendi pressoché inalterato opera dopo opera non si potrà considerare come un vero e proprio difetto, però al sottoscritto pesa più la scelta di non tentare altre metodologie di trasmissione che le mancanze vere e proprie riscontrabili nel girato, perché Ma’ Rosa, al pari delle altre pellicole, è ben lontano da una possibile perfezione, qui si ravvisa un non totale equilibrio tra la prima parte, frenetica e rabbiosa, dove la presa asfissiante sulla concretezza della situazione è tangibile (l’irruzione della polizia; la deportazione al commissariato), e la seconda parte (all’incirca dopo il pestaggio del pusher) in cui Mendoza allestisce alcune parentesi narrative che non hanno l’energia della miccia iniziale (mi riferisco agli stratagemmi adottati dai figli per racimolare il denaro necessario), del resto credo sia evidente che Mendoza dia il meglio di sé nel catturare la realtà piuttosto che nell’inscenarla. Dunque abbiamo una struttura iniqua? Uno sbilanciamento? A mio avviso sì, però, visto che parliamo di un film a suo modo generoso, sono questioni su cui si può soprassedere, il viaggio low-cost, umbratile, umido, tendente alla disperazione, verace e, nei limiti della finzione, sincero, non ci fa reclamare indietro le quasi due ore che gli abbiamo dedicato, il pianto liberatorio di Rosa nel finale ha una dignità filmica da ammirare, peccato solo che confezione e farcitura rientrino nell’ordinario dell’autore filippino, mi piacerebbe vedere qualcosa che si stacchi da suddette coordinate.

Nessun commento:

Posta un commento