L’ultimo
incontro ravvicinato che ho avuto con Brillante Mendoza risale a Thy Womb (2012), un film, per ciò che ricordo (poco), in
linea con la sua idea di cinema immersa nel reale, e non una realtà
qualunque ma quella povera e problematica delle Filippine. Tenendo
bene a mente queste caratteristiche connotanti si può subito dire
che Ma’ Rosa (2016) continua a battere il medesimo percorso
intrapreso dal regista nato a San Fernando fin dagli albori, ed
estromettendo un paio di dimenticabilissimi titolacci iniziali, col
tempo Mendoza ha affinato il suo sguardo specializzandosi in quel
cinema-del-reale che vanta fior fiore di esponenti in tutto il globo.
Oh, il signor Brillante non è un’esteta, almeno non nell’accezione
classica che si ha del termine, sebbene i suoi lavori un’estetica
ce l’abbiano, e anche piuttosto definita, ma si tratta di apparati
formali che, per via di budget molto risicati (ad esclusione –
presumo – di Captive, 2012), non possono certo essere
definiti “belli”, ciononostante una bellezza ci arriva e tale
bellezza si può desumere dalla verità delle cose che si susseguono
sullo schermo al ritmo della vita, magari in un quartiere disagiato
di Manila, magari dentro ad una famiglia che gestisce un negozietto e
che per campare spaccia droga sottobanco, magari nell’omerica
serata dentro agli uffici della polizia locale, e quindi succede che
dal nulla veniamo catapultati nell’esistenza di alcune persone in
lotta per la sopravvivenza urbana, niente sembra facile per loro e la
prassi mendoziana, che da buon testimone oculare si interessa a
mostrarci quanto più gli riesce, si esalta nelle tensioni, nei
nervosismi, nelle paure dell’istante, nelle concitazioni, nei
raptus, nei blitz notturni sotto la pioggia scrosciante. La formula è
assodata, se la conoscete saprete già in anticipo di che pasta è
fatto Ma’ Rosa.
Ecco, se Tarantino, e non solo lui, era rimasto impressionato dalla
visione di Kinatay (2009), lo si doveva probabilmente ad un
effetto novità, ad un approccio alla materia filmata in un dato
contesto geografico che ci aveva stuzzicato il palato, il punto è
che poi Mendoza si è autorecintato in uno stile che da una parte lo
identifica e che dall’altra lo rende un po’ prevedibile, anzi no:
che lo rende meno efficace, meno potente di quanto potrebbe essere.
La riproposizione di un usus scribendi pressoché inalterato
opera dopo opera non si potrà considerare come un vero e proprio
difetto, però al sottoscritto pesa più la scelta di non tentare
altre metodologie di trasmissione che le mancanze vere e proprie
riscontrabili nel girato, perché Ma’ Rosa, al pari delle
altre pellicole, è ben lontano da una possibile perfezione, qui si
ravvisa un non totale equilibrio tra la prima parte, frenetica e
rabbiosa, dove la presa asfissiante sulla concretezza della
situazione è tangibile (l’irruzione della polizia; la deportazione
al commissariato), e la seconda parte (all’incirca dopo il
pestaggio del pusher) in cui Mendoza allestisce alcune parentesi
narrative che non hanno l’energia della miccia iniziale (mi
riferisco agli stratagemmi adottati dai figli per racimolare il
denaro necessario), del resto credo sia evidente che Mendoza dia il
meglio di sé nel catturare la realtà piuttosto che nell’inscenarla.
Dunque abbiamo una struttura iniqua? Uno sbilanciamento? A mio avviso
sì, però, visto che parliamo di un film a suo modo generoso, sono
questioni su cui si può soprassedere, il viaggio low-cost, umbratile,
umido, tendente alla disperazione, verace e, nei limiti della
finzione, sincero, non ci fa reclamare indietro le quasi due ore che
gli abbiamo dedicato, il pianto liberatorio di Rosa nel finale ha una
dignità filmica da ammirare, peccato solo che confezione e farcitura
rientrino nell’ordinario dell’autore filippino, mi piacerebbe
vedere qualcosa che si stacchi da suddette coordinate.
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