È ancora un grande onore per me potervi presentare un regista molto “da festival”, particolare, di quelli che quaggiù si trovano a casa, conosciuto soltanto dalla solita nicchia di cinefili, a volte osannato (soprattutto oltralpe), altre volte bocciato come nel caso della sua ultimissima prova Eastern Drift (2010). Sto parlando di Sharunas (Šarūnas) Bartas nato a Siauliai nel 1964, Lituania, ma piccolo globetrotter nei fatti avendo girato film in luoghi diversissimi e lontanissimi tra loro.
Come è il cinema di Bartas? Beh, non lo so. Le sensazioni sono positive, il resto lo scopriremo insieme.
Trys dienos (1991) è il suo primo lungometraggio e fu presentato al Festival di Berlino riscuotendo discreti consensi. Il film è di quelli asciutti, senza fronzoli: un paio di giovani erranti attori, una location ad effetto come la desolante città di Kaliningrad, fotografia pagliericcia, sequenze lente, dialoghi suggeriti più che parlati, rumore svariato dal porto, dalle fabbriche, dalle sale da ballo.
Non c’è nient’altro.
Si racconta di questi e del loro incontro nella città. Del loro girovagare in alberghi inospitali e seminterrati disadorni. C’è aria di stasi in questo film che narra gli eventi attraverso silenzi umani o rumori lontani. Tutto è imperscrutabile, solitudini ancestrali, vuoti che non si riempiono. Sembra che – tesi del tutto personale – nelle zone dell’ex URSS non se la spassino granché. C’è un mal di vivere sotterraneo che traspare anche soltanto dai volti delle persone, spesso solcati dalle rughe o ricoperti da barbe sporche e disordinate. Il decadimento dei posti fisici va a braccetto con quello delle anime che sanno di non aver alcuna possibilità di redenzione, e allora continuano ad arrancare nel tempo, perdendosi.
Ci sono eccezioni, come i ragazzi di questo film. E la loro voglia di andare via, di partire, ma il meccanismo beffardo, fatto di annullamenti e privazioni, in cui sono imbrigliati dalla nascita non permette loro di poter fuggire. Alla fine non resta che l’esplosione di pianto della ragazza (Yekaterina Golubeva, futura moglie del regista) per presa coscienza del proprio stato esistenziale.
Capirete che Three Days è un film per pochi. A mio modo di vedere non molto raccomandabile perché fermo statico inerte ed anche – non me ne vogliano i bartassiani, ammesso che esistano – noioso.
È un cinema che utilizza questo linguaggio, che fa dei tempi morti la propria sostanza; è brutto usare un aut aut ma mai come in questo caso è da prendere o lasciare.
Io comunque sia prendo.
Benvenuti nel mondo di Sharunas Bartas, credo che non ne usciremo tanto facilmente.
Come è il cinema di Bartas? Beh, non lo so. Le sensazioni sono positive, il resto lo scopriremo insieme.
Trys dienos (1991) è il suo primo lungometraggio e fu presentato al Festival di Berlino riscuotendo discreti consensi. Il film è di quelli asciutti, senza fronzoli: un paio di giovani erranti attori, una location ad effetto come la desolante città di Kaliningrad, fotografia pagliericcia, sequenze lente, dialoghi suggeriti più che parlati, rumore svariato dal porto, dalle fabbriche, dalle sale da ballo.
Non c’è nient’altro.
Si racconta di questi e del loro incontro nella città. Del loro girovagare in alberghi inospitali e seminterrati disadorni. C’è aria di stasi in questo film che narra gli eventi attraverso silenzi umani o rumori lontani. Tutto è imperscrutabile, solitudini ancestrali, vuoti che non si riempiono. Sembra che – tesi del tutto personale – nelle zone dell’ex URSS non se la spassino granché. C’è un mal di vivere sotterraneo che traspare anche soltanto dai volti delle persone, spesso solcati dalle rughe o ricoperti da barbe sporche e disordinate. Il decadimento dei posti fisici va a braccetto con quello delle anime che sanno di non aver alcuna possibilità di redenzione, e allora continuano ad arrancare nel tempo, perdendosi.
Ci sono eccezioni, come i ragazzi di questo film. E la loro voglia di andare via, di partire, ma il meccanismo beffardo, fatto di annullamenti e privazioni, in cui sono imbrigliati dalla nascita non permette loro di poter fuggire. Alla fine non resta che l’esplosione di pianto della ragazza (Yekaterina Golubeva, futura moglie del regista) per presa coscienza del proprio stato esistenziale.
Capirete che Three Days è un film per pochi. A mio modo di vedere non molto raccomandabile perché fermo statico inerte ed anche – non me ne vogliano i bartassiani, ammesso che esistano – noioso.
È un cinema che utilizza questo linguaggio, che fa dei tempi morti la propria sostanza; è brutto usare un aut aut ma mai come in questo caso è da prendere o lasciare.
Io comunque sia prendo.
Benvenuti nel mondo di Sharunas Bartas, credo che non ne usciremo tanto facilmente.
non lo conosco..ora provvedo..ciao
RispondiEliminaSinceramente, non so se ne vale la pena. Ho già visto i suoi primi 3 film e mi sono risultati pesantucci a dir poco. Cinema d'essai allo stato puro.
RispondiEliminaio vidi Koridorius, proprio su youtube, è davvero un autore ipnotizzante, di una lentezza metafisica, è sicuramente influenzato dal cinema russo.
RispondiEliminaSìsì è per quello che l'ho "scelto". Three Days è come Koridorius, e forse ancora più alienato.
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