Disordinata cronistoria – dopotutto – devo dire indolore, dell’anno di disgrazia 2004 a San Francisco, Golden Gate Bridge per la precisione, teatro grandguignolesco di ventiquattro, dicesi ventiquattro, suicidi nell’arco di 12 mesi. Praticamente due al mese.
Piazzate tot telecamere che hanno ripreso notte e dì i movimenti sul ponte nei pressi della zona, il regista Eric Steel ne ha cucito le immagini con testimonianze dei parenti o amici stretti delle persone suicidatesi.
Macabro, penserete. E lo penso anche io che con la mia “esperienza” definirei The Bridge un mondo movie dei giorni nostri, certo più curato nella tecnica e meno ostentato nel contenuto, ma voyeuristico nonché speculativo nel maneggiare storie di gente che si toglie la vita. Molto intrusivo, davvero, forse l’aspetto più fastidioso è quello di voler entrare in sfere personalissime che da nome sarebbero perlopiù appartenenti ai legittimi proprietari e non ad un curioso obiettivo di un inutile telecamera. Ma in America l’elaborazione del lutto dev’essere più compartecipativa della nostra visti i funerali-rinfresco che fanno, e quindi riprendere un tizio che si getta giù da un ponte non dovrà sembrare troppo irrispettoso per gli yankee.
Tenendo a mente una tale condivisione della soglia del dolore, si può dire che il documentario abbia una valenza minima nel suo campo date le telegiornalistiche informazioni che dà. Se di denuncia si voleva trattare farci un film sopra è un’esagerazione, che di notizie così se ne sentono e se ne leggono ogni ora, e sebbene siano pur sempre brutte storie, l’opinione pubblica si è costruita addosso una bella corazza che un poveraccio stanco di vivere non potrà di certo scalfire.
Il gusto è cattivo, almeno sempre per me vecchio europeo, anche e soprattutto quando i conoscenti parlano dei loro cari deceduti, nel rivelare e nello svelare i vuoti esistenziali che li tormentavano. Oltre a mancare di riconoscenza al morto, le varie testimonianze si susseguono dentro ovvietà sconcertanti come se non si potesse intuire che un essere umano desideroso di lasciare ‘sto mondo abbia giganteschi problemi irrisolti.
E poi meschina la strumentalizzazione del capellone suicida che viene proposto nelle immagini sul ponte più degli altri per venir alla fine utilizzato come (inconsapevole) protagonista principale con il suo salto mortale all’indietro.
Evitate.
Piazzate tot telecamere che hanno ripreso notte e dì i movimenti sul ponte nei pressi della zona, il regista Eric Steel ne ha cucito le immagini con testimonianze dei parenti o amici stretti delle persone suicidatesi.
Macabro, penserete. E lo penso anche io che con la mia “esperienza” definirei The Bridge un mondo movie dei giorni nostri, certo più curato nella tecnica e meno ostentato nel contenuto, ma voyeuristico nonché speculativo nel maneggiare storie di gente che si toglie la vita. Molto intrusivo, davvero, forse l’aspetto più fastidioso è quello di voler entrare in sfere personalissime che da nome sarebbero perlopiù appartenenti ai legittimi proprietari e non ad un curioso obiettivo di un inutile telecamera. Ma in America l’elaborazione del lutto dev’essere più compartecipativa della nostra visti i funerali-rinfresco che fanno, e quindi riprendere un tizio che si getta giù da un ponte non dovrà sembrare troppo irrispettoso per gli yankee.
Tenendo a mente una tale condivisione della soglia del dolore, si può dire che il documentario abbia una valenza minima nel suo campo date le telegiornalistiche informazioni che dà. Se di denuncia si voleva trattare farci un film sopra è un’esagerazione, che di notizie così se ne sentono e se ne leggono ogni ora, e sebbene siano pur sempre brutte storie, l’opinione pubblica si è costruita addosso una bella corazza che un poveraccio stanco di vivere non potrà di certo scalfire.
Il gusto è cattivo, almeno sempre per me vecchio europeo, anche e soprattutto quando i conoscenti parlano dei loro cari deceduti, nel rivelare e nello svelare i vuoti esistenziali che li tormentavano. Oltre a mancare di riconoscenza al morto, le varie testimonianze si susseguono dentro ovvietà sconcertanti come se non si potesse intuire che un essere umano desideroso di lasciare ‘sto mondo abbia giganteschi problemi irrisolti.
E poi meschina la strumentalizzazione del capellone suicida che viene proposto nelle immagini sul ponte più degli altri per venir alla fine utilizzato come (inconsapevole) protagonista principale con il suo salto mortale all’indietro.
Evitate.
Ragazzo mio, tu dai troppo importanza alla vita.
RispondiElimina*a
RispondiEliminaSì, nonostante tutto il resto.
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