lunedì 28 novembre 2022

One of Us

Undici anni dopo Jesus Camp (2006) Heidi Ewing e Rachel Grady sono nuovamente attirate da una realtà religiosa che, a dispetto del suo essere così chiusa e integralista, ha residenza nella città più cosmopolita del pianeta: New York. One of Us (2017) ci dice che in seno alla Grande Mela c’è un baco retrogrado che prende il nome di chassidismo, una frangia ebraica ultra ortodossa che demonizza il progresso (Internet è il male assoluto: lo si urla in un mega raduno all’interno di un campo da baseball con gli spalti stracolmi) e che priva gli individui appartenenti alla comunità di tutta una serie di robe che per noi sono ampiamente scontate e che potremmo riassumere in un unico grande concetto: queste persone vengono private della loro libertà. Le registe per approfondire il tema costituiscono una narrazione tripartita che segue altrettanti individui in rotta con la collettività yiddish per diverse ragioni personali, abbiamo un dramma famigliare con Etty che chiedendo il divorzio perderà i bambini (e questo si deve ad un sistema giudiziario piegato al volere chassidico, sebbene ammetto di non aver compreso appieno come sia possibile), un lento percorso di autoconsapevolezza da parte di Ari attratto dal nuovo mondo, schifato dal vecchio (ha subito abusi) ma non ancora del tutto pronto per un passaggio totale nella laicità e infine Luzer, un uomo che ha abbandonato moglie e figli per fare l’attore e vivere al di fuori della prigione conservatrice. Ad una scorsa globale non ci sono grandi sorprese in One of Us, Ewing e Grady propongono il loro punto di vista occidentale (che ovviamente è anche il nostro) e condannare la cappa reazionaria subita dai protagonisti è pressoché automatico.

Premesso che per affrontare la vastità di un movimento religioso strettamente collegato ad eventi storici ci vorrebbe una preparazione che di sicuro non si può trovare in un documentario, io continuo a tenere vivo lo spazio virtuale che state leggendo non per fare una piatta descrizione degli argomenti trattati da un film (cosa avvenuta nel paragrafetto sopra), ma per segnalare dei film che, come ha detto Vanni Santoni riferendosi a dei testi letterari indispensabili per chi ha in testa di fare lo scrittore, “hanno strappato territori nuovi all’inesistente”. Un tempo, il tempo di Jesus Camp ad esempio, non mi importava troppo della grammatica e della sintassi nel cinema, non ci pensavo, ero abbindolato dal racconto in superficie, poi, affinando lo sguardo, l’azione di potatura dell’inessenziale ha fatto sì che il metodo divenisse il centro delle mie attenzioni. E quindi che dire di One of Us che è un prodotto targato Netflix e che quindi ha una composizione settata per essere accessibile dal vasto pubblico? Nulla, è ordinaria amministrazione, è confezione uguale ad infinite altre, non vi è ricerca strutturale né l’impiego di soluzioni che possano far uscire l’opera dalla consuetudine. Non voglio passare per un cine-talebano (o un cine-chassida giacché siam qua) perché di bellezza ce ne può essere anche in oggetti che non per forza se ne stanno in frontiera, e infatti One of Us non lo giudicherei brutto, solo che non è molto e neanche abbastanza, è giusto uno step oltre il medio intrattenimento.

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