Sharunas Bartas. Uno
degli sguardi che più ha segnato quel cinema sommerso da noi
tanto adorato, con l’inizio del nuovo millennio ha ridotto di molto
il ritmo produttivo segnalandosi per la “meta” Seven Invisible Men (2005) divenuta un po’ lo spartiacque del curriculum
bartasiano, infatti l’opera successiva, Eastern Drift (2010),
sarà l’unico tentativo di un’intera filmografia ad aprirsi
verso un cinema più digeribile, il risultato non si è
potuto definire memorabile. Dopodiché è arrivato questo
Peace to Us in Our Dreams (2015), un lavoro di cui va
necessariamente anticipato un aspetto fondamentale: è il primo
film di Bartas dopo la morte di Yekaterina Golubeva,
dettaglio tutt’altro che superfluo: silenziosamente, come
d’altronde è nel modus operandi
del regista lituano, l’assenza dell’attrice-musa nonché ex
moglie aleggia come un’alba invernale, e la presenza fantasmatica,
corrispettivo puntuale di quando era in vita, si manifesta in un
filmato d’archivio centrato sul viso della donna che ci regala
un’intensità rara, magari comprensibile soltanto da chi
segue Bartas dagli albori o magari no, ché certi occhi diafani
sanno invadere. C’è perciò una miccia personale che
accende l’opera alla quale si aggiunge un ulteriore carico intimo
poiché nel cast troviamo la vera figlia di Bartas (avuta
proprio con la Golubeva) e la nuova compagna, una giovane
violoncellista, entrambe alla prima esperienza attoriale.
Il
triangolo etereo che interagisce con altri personaggi minori
altrettanto intangibili è mosso da un sempre enigmatico
Bartas che vaga rabbuiato per la campagna lasciando aperte le porte
delle interpretazioni, qualunque esse siano. Si può affermare
che nell’imperscrutabilità del tutto è comunque
avvertibile un rinnovato rivolgersi a quel cinema a lui più
consono, certo i tempi sono cambiati e quell’atmosfera da fine dei
giorni una volta così apprezzata, lasciando il posto ad una
patinatura dal sapore un filo glamour non è che soddisfi in
toto il palato dell’estetica, tuttavia, rispetto a Eastern
Drift, si percepisce una maestria autoriale nell’intarsiare la
storia e nello svilupparla con accorgimenti, per così dire,
stile-Bartas. Ecco, a proposito di storia, si ribadisce la dimensione
quanto mai famigliare del film, e sì, a parte le vicende
accessorie dei villici che rimarcano un’estesa disgregazione
consanguinea, è il mondo-interno-Bartas a dispiegarsi
sottoforma di immagini, sguardi e bisbigli. La presenza fisica e non
(Katja) dei suoi affetti tutti riuniti nel medesimo recinto
cinematografico lo mettono realmente a nudo e, come del resto tutte
le recensioni nel Web evidenziano, negli ultimi minuti perfino
loquace; anche a costo di scivolare su dialoghi posticci (quello
dell’amica che si reca a trovarlo l’ho trovato pretestuoso),
Bartas si confida con i suoi interlocutori (e quindi anche con noi)
vestendo nella diegesi la doppia veste di padre e di regista,
riuscendo a congiungere due estremi di un filo attorcigliato
nell’animo, giù nelle zone profonde e umide dove una carezza
lunare si reincarna nella sagoma di una ragazzina dietro la finestra.
Se si ripensa a Freedom
(2000), o, ancora più indietro, ad oggetti alieni come Three Days (1992) o The Corridor (1995), il Bartas di adesso
ci propone un cinema differente, forse più “pensato”
(qui è evidente la presenza di un minimo di scrittura in
partenza) e meno libero, o magari più deciso a staccarsi dagli
stilemi che lo avevano contraddistinto. È
un bel film Peace to Us in Our Dreams? Non mi ritengo
capace di rispondere, ma se visto nell’ottica di un percorso
artistico allora sì, contiene una propria bellezza, e solo
perché sotto tale percorso si cela il risvolto più
prezioso di Sharunas, quello umano.
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