mercoledì 13 luglio 2016

Peace to Us in Our Dreams

Sharunas Bartas. Uno degli sguardi che più ha segnato quel cinema sommerso da noi tanto adorato, con l’inizio del nuovo millennio ha ridotto di molto il ritmo produttivo segnalandosi per la “meta” Seven Invisible Men (2005) divenuta un po’ lo spartiacque del curriculum bartasiano, infatti l’opera successiva, Eastern Drift (2010), sarà l’unico tentativo di un’intera filmografia ad aprirsi verso un cinema più digeribile, il risultato non si è potuto definire memorabile. Dopodiché è arrivato questo Peace to Us in Our Dreams (2015), un lavoro di cui va necessariamente anticipato un aspetto fondamentale: è il primo film di Bartas dopo la morte di Yekaterina Golubeva, dettaglio tutt’altro che superfluo: silenziosamente, come d’altronde è nel modus operandi del regista lituano, l’assenza dell’attrice-musa nonché ex moglie aleggia come un’alba invernale, e la presenza fantasmatica, corrispettivo puntuale di quando era in vita, si manifesta in un filmato d’archivio centrato sul viso della donna che ci regala un’intensità rara, magari comprensibile soltanto da chi segue Bartas dagli albori o magari no, ché certi occhi diafani sanno invadere. C’è perciò una miccia personale che accende l’opera alla quale si aggiunge un ulteriore carico intimo poiché nel cast troviamo la vera figlia di Bartas (avuta proprio con la Golubeva) e la nuova compagna, una giovane violoncellista, entrambe alla prima esperienza attoriale.

Il triangolo etereo che interagisce con altri personaggi minori altrettanto intangibili è mosso da un sempre enigmatico Bartas che vaga rabbuiato per la campagna lasciando aperte le porte delle interpretazioni, qualunque esse siano. Si può affermare che nell’imperscrutabilità del tutto è comunque avvertibile un rinnovato rivolgersi a quel cinema a lui più consono, certo i tempi sono cambiati e quell’atmosfera da fine dei giorni una volta così apprezzata, lasciando il posto ad una patinatura dal sapore un filo glamour non è che soddisfi in toto il palato dell’estetica, tuttavia, rispetto a Eastern Drift, si percepisce una maestria autoriale nell’intarsiare la storia e nello svilupparla con accorgimenti, per così dire, stile-Bartas. Ecco, a proposito di storia, si ribadisce la dimensione quanto mai famigliare del film, e sì, a parte le vicende accessorie dei villici che rimarcano un’estesa disgregazione consanguinea, è il mondo-interno-Bartas a dispiegarsi sottoforma di immagini, sguardi e bisbigli. La presenza fisica e non (Katja) dei suoi affetti tutti riuniti nel medesimo recinto cinematografico lo mettono realmente a nudo e, come del resto tutte le recensioni nel Web evidenziano, negli ultimi minuti perfino loquace; anche a costo di scivolare su dialoghi posticci (quello dell’amica che si reca a trovarlo l’ho trovato pretestuoso), Bartas si confida con i suoi interlocutori (e quindi anche con noi) vestendo nella diegesi la doppia veste di padre e di regista, riuscendo a congiungere due estremi di un filo attorcigliato nell’animo, giù nelle zone profonde e umide dove una carezza lunare si reincarna nella sagoma di una ragazzina dietro la finestra.

Se si ripensa a Freedom (2000), o, ancora più indietro, ad oggetti alieni come Three Days (1992) o The Corridor (1995), il Bartas di adesso ci propone un cinema differente, forse più “pensato” (qui è evidente la presenza di un minimo di scrittura in partenza) e meno libero, o magari più deciso a staccarsi dagli stilemi che lo avevano contraddistinto. È un bel film Peace to Us in Our Dreams? Non mi ritengo capace di rispondere, ma se visto nell’ottica di un percorso artistico allora sì, contiene una propria bellezza, e solo perché sotto tale percorso si cela il risvolto più prezioso di Sharunas, quello umano.

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