Per Jaime Rosales,
barcellonese classe ’70, l’assimilazione del lutto può
prendere strade divergenti all’interno di uno stesso nucleo
famigliare. Lo studio sull’umano flagellato dal dramma composto in
Sueño y silencio (2012) agisce per mezzo di un
approccio minimalista, e quando la sottrazione si applica nel campo
della tragedia abbiamo una forte antitesi: la figlia maggiore muore
in un incidente eppure niente si ostenta, né il fatto,
mostrato indirettamente dalla sedia vuota in cucina, né il
lacrimevole dolore carpito al massimo da molto lontano con un campo
lungo che riprende la tumulazione. È in siffatti termini che
il film di Rosales, presentato a Cannes ’12, si avvicina allo
smarrimento della perdita consanguinea e, come detto all’inizio, lo
fa contrapponendo i due genitori che vivono la disgrazia in maniera
opposta; qui la pellicola ravviva la brace che la tiene accesa poiché
nel meccanismo di rimozione totale del padre si può vedere uno
scudo che forse cela un latente senso di colpa, ciò rende
ancora più fragile e sola la figura della madre (attrice non
professionista al pari di tutto il resto del cast) combattuta dal
rimorso e da una sorta di rabbia verso la persona con cui dovrebbe
condividere il macigno dei ricordi il quale invece prosegue la sua
vita come se niente fosse successo. Rosales è abile nel
restituirci la densità dei sentimenti generati dall’atroce
fatalità avvalendosi di una naturalezza e di una semplicità
ammirevoli, infatti è da conversazioni per nulla impostate
(leggi: recitate) e piccoli dettagli (l’improvvisa colorazione del
nonno sul luogo della sciagura: è l’accettazione della
morte?) che apprendiamo gli elementi indispensabili alla
comprensione.
Il regista non si ferma
alla constatazione ma instilla forse anche i prodromi per un
superamento/accettazione sempre con un metodo che omette, che cela,
che va a situarsi in un ipotetico fuori campo: quello della nostra
immaginazione. Il luogo della “rinascita” parrebbe localizzarsi
in un grande parco dove il film apre una breccia nella sottile
membrana del reale per affacciarsi sull’impossibile e divenire
teatro di apparizioni extraterrene, spirito in un consesso di persone
e bambini urlanti, questa deviazione dell’opera, pressoché
impercettibile poiché appena appena disallineata dal mood
generale, sembra essere davvero la chiave di volta poiché
anche il marito confesserà alla moglie che nel parco è
successo qualcosa di folle, e che cosa, ovviamente, Rosales si mostra
bene dal farlo vedere, e a noi va bene così. L’insistenza su
uno sfondamento dimensionale, che poi potrebbe essere soltanto
mentale, lasciando perciò un piacevole e fertilizzante dubbio,
trova definitiva conferma nel prolungato piano sequenza conclusivo
generato da una mdp che viaggia a mezz’aria tra il brulicare della
gente e che conclude la sua traiettoria su una scena tanto idilliaca
quanto improbabile.
Lo stile che mi permetto di definire coerente garantisce alla pellicola un avvicinamento non scontato ad un tema così luttuoso, in più la proiezione usufruendo di intelligenti ellissi unite ad aperture verso l’irreale si rende inconsueta e sospesa come se a tratti fosse davvero un sogno.
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