Alex Gibney, prolifico
produttore e regista documentaristico statunitense, alle prese con
gli abusi sessuali della chiesa cattolica su dei ragazzini sordomuti
americani. Attenzione attenzione, mai come in un caso del genere che
tratta un argomento così delicato, si chiedeva un aspetto
degno di saper elevare il tema trattato, ci voleva tatto
artistico, sapienza anti-rappresentativa, insinuazione senza
mostrare, che non ce n’è bisogno, instillazione e successivo
spalancamento sul Raccapriccio. Invece no. Sciaguratamente è
troppo facile constatare la pochezza formale di Mea Maxima Culpa
(2012) che è, in tutto e per tutto, un prodotto sfacciato,
quindi televisivo, che rema contro ai temi presi in esame.
L’impostazione da programma in prima serata è corroborata da
degli evitabilissimi intervalli raffigurativi dove si ricreano le
malefatte del prete nell’istituto, in questo modo la presa sul
reale svanisce e di riflesso anche la portata divulgativa diviene
fiacca. Se io guardo la tv, so che guardo la tv e ne accetto i limiti
strutturali, ma se cerco in un film del cinema, del cinema vero,
allora non posso accettare la proposta di Gibney. E forse la sparerò
grossa ma mi sento di affermare che tale impianto si genera
direttamente dalla spettacolarizzazione a stelle e strisce che non
vuole lasciare mai niente allo spettatore e quindi ci invade, ci
imbocca, ci strafoga con la sua opulenza.
Certo, i segmenti di
fiction sono piuttosto brevi e in fin dei conti non dovrebbero
risultare urticanti, sarà, ma al di là di questa caduta
assenza di stile il documentario pur maneggiando un tubero
incandescente non arriva, resta nella vetrina del già visto:
“ok, è la solita vicenda di preti pedofili”. La mole di
informazioni fornita dal film era già rintracciabile in Rete e
alla mercé di chiunque avesse avuto voglia di andarsela a
spulciare (la storia di Maciel è risaputa e qui non si
aggiunge niente di nuovo), così come è arcinota la
galassia ecclesiastica estremamente reazionaria, omertosa,
conservatrice e sigillata intorno ai suoi patetici dogmi. E tutto
questo viene riportato da Gibney con i lustrini della scoperta
dell’acqua calda. È un documentario privo di potenza,
carente nella patina di cui si avvale e autolimitato nel riferire
argomenti già di pubblico dominio (il che non vuol dire che se
già conosciuti non ci sia più bisogno di parlarne,
tutt’altro, ma la differenza si gioca sempre sui modi, c’è
poco da fare). Alla fine l’unico momento che tocca è quando
le tre vittime, una volta adulte, si mettono alla ricerca di padre
Murphy e filmano il rapido incontro: lì c’è del
cinema, perché quando la settima arte ti sbatte di fronte il
Mostro, quando c’è la Realtà e non la
rappresentazione, allora si può solo che tacere.
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