La fa facile
la tagline sulla pagina IMDb di Desierto en tu mente (2017)
definendolo un road-movie surreale, non che nell’esordio della
videoartista spagnola Marta Grimalt non sia riscontrabile un tragitto
geografico (nel caos indomabile si comprende almeno uno spostamento
dalla Spagna agli Stati Uniti), però c’è così tanto materiale
qui dentro e così tanto rimescolato che non si hanno altre scelte ad
esclusione di: bollare sbrigativamente la faccenda come sterile
onanismo giovanile, oppure interpretare la schizofrenia visiva come
furore artistico, bulimico e difettoso ma pur sempre vivo. Cerco di
pormi a metà strada senza però tentare di dare un ordine logico
perché sarebbe fatica inutile: nell’impossibile intelligibilità
dell’opera che è pervasa da un’anarchia indisciplinata si
espandono a mo’ di cerchi nell’acqua suggestioni lynchiane (il
tizio in maschera, alcune distorsioni sonore) o comunque
riconducibili ad altri filmmaker che amano sperimentare pur avendo
pochi mezzi a disposizione. Il tentativo della Grimalt è
apprezzabile perché dopo tutto siamo buoni, certo è che, pur
essendo questo un oggetto che si sfibra minuto dopo minuto, che si
esfolia con gran trambusto, avremmo gradito un abbraccio connettivo
che invece non si ritrova, a meno che non si voglia considerare la
ragazza che gira con lo yo-yo il collante tra le situazioni e gli
enigmatici personaggi che si avvicendano, però a mio modo di vedere
non è un tratto che dà vera organicità. Alla lunga una tale
sfrontatezza, sebbene compressa in giusto sessanta minuti, un po’
stufa.
L’aspetto
di Desierto en tu mente si poggia su un girato in Super 8 che
balla tra due estremi: il muto e l’avanguardia. La Grimalt osa
parecchio e tempesta il flusso filmico di gingilli e accorgimenti da
epilessia (c’è ad esempio una “cosa” ancorata sulla sinistra
dello schermo che lampeggerà per l’intera durata della
proiezione), strambi quadrati con all’interno altre immagini si
sovrappongono all’immagine-madre, scenette nonsense segnano il
cammino della giovane occhialuta (una è commentata da un’assurda
intervista con voci modificate ad un tipo di nome Cocoliso che a
quanto pare è la versione ispanica di Pisellino, il figlio di
Braccio di Ferro), ingressi musicali a dir poco stridenti erompono
furibondi. Io, al cospetto di siffatto scompiglio, dico che comunque la
pellicola non si leva di dosso quell’aura di amatorialità di cui è
intrisa, una roba che si avverte messa in piedi con amici e
conoscenti che magari saranno anche bravi professionisti ma che non riescono a compensare le velleità sperimentali di Marta Grimalt
perché probabilmente nel 2017 le mancavano delle basi, sia economiche che
pratico-teoriche. Riconoscendo l’intraprendenza della maiorchina, e
suggerendole umilmente di proseguire negli studi sul cinema, il mio
pollice si alza timidamente per un finale dal sapore liberatorio, il
che non va letto in maniera negativa, al contrario, si sente uno
scioglimento, un’apertura dopo un’immersione grigia, disturbata e
intermittente.
Nessun commento:
Posta un commento