Il passo che va un po’ oltre la creazione di aspettative su una tale lunghezza d’onda è dato da un piacevole estro creativo che attraversa l’opera, parlo essenzialmente di soluzioni formali (grafiche, di montaggio e perfino di formato), probabilmente non così indispensabili, che ad ogni modo vivificano il girato, lo ripuliscono da una possibile e pericolosa classicità in favore di una freschezza che, parlando di cinema narrativo, è sempre ben accolta. Poi qua va inserito il discorso decisamente ampio che si tenta di imbastire, perché non si può negare che ci sia quasi un filtro filosofico che voglia spiegare e spiegarci il mondo. Nell’ottica di una maggiore profondità dei significati chi scrive ha riscontrato una discreta arguzia nel cablare la componente riflessiva, che poi diventa una sorta di narratore interno, sugli occhi, il cuore ed il cervello della ragazzina protagonista, e così, scampato un possibile appesantimento dei toni, seguiamo il suo cogitare in voce off. I concetti principali, riportati nel titolo, sono che ci sono delle regole riguardanti tutti, tutti: esseri inanimati e non, e che siffatte norme, volenti o nolenti, direzionano la vita verso una sola meta, la morte. Allegria! Ed il centro della storia, al pari delle sue eventuali diramazioni, conduce al capolinea per eccellenza, alle modalità con cui si può contrastare (sembra che Il settimo sigillo [1957] sia un modello in tal senso), o, magari, per tentare una comprensione, che già sarebbe un qualcosa di importante.
Gli intenti teorici hanno quindi un loro perché, poi subentra il fatto che sembrerebbe crearsi una discrepanza nell’applicazione pratica, se pensiamo a Storm quale personaggio super partes, una coscienza filmica astratta, pensante, praticamente antidiegetica (e il ruolo che riveste nella recita scolastica non è casuale), le corrispettive vicende che coinvolgono la madre paiono viaggiare su ben altri piani, la doppia e repentina perdita (prima sentimentale e subito dopo fisica) del marito, il tentativo di ricostruzione del sé con l’ingresso in scena del giovane e scapestrato guru, sono snodi posti non alla medesima altezza delle aspirazioni concettuali, permane uno scollamento, una non perfetta aderenza che lascia un non so che di amaro in bocca, la sensazione che bastava giusto un cicinino in più per trovare la quadra, nulla toglie che comunque in Hiorthøy, così come in Tunge, si intravedono grandi margini di miglioramento.
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