lunedì 29 luglio 2019

Tikkun

Non mi sento di biasimare nulla al regista israeliano classe ’77 Avishai Sivan per un motivo molto molto semplice: Tikkun (2015) è nel complesso un gran bel film e proprio di complessità si occupa, mica questioncine accessorie!, il terreno di gioco vede infatti due grandi contendenti del persempre che sono la Vita e la Morte, e da qua, cari lettori, non si scappa, invece Sivan scappa anche allargando le maglie della sua opera per farvi filtrare ulteriori tematiche che comunque si presentano costantemente sottoforma antitetica in una connessione nadirale e zenitale che ben si sposa con la veste estetica, bianco e nero come carne e spirito, tradizione e rivoluzione, prigione e libertà, padre e figlio, Dio e dio. Ma soffermandoci un poco sulla componente estetica è necessario sottolineare di quanto essa sia un fattore fondamentale della pellicola perché sarà pur vero che quando si parla di ultraortodossia una religione può valere l’altra ma Sivan filmando all’interno del quartiere Mea Shearim (la zona più conservatrice di Gerusalemme) ci fornisce una testimonianza di seducente alterità che attraverso uno stile ieratico si scolpisce con discrezione nelle nostre pupille le quali restano ammaliate da queste figure golcondiane in salsa mediorientale, dal loro esserci umbratile all’interno del quadro, dall’apparire nera massa indistinguibile ma anche singolarità malinconica e fantasmastica nei panni di uomini anacronisticamente agghindati, c’è, in sostanza, un sottile magnetismo sprigionato dai soggetti nello schermo che si traduce in un fascino visivo per nulla convenzionale.

A ben vedere nel rapporto padre-figlio il regista, finanche sceneggiatore, ripone parecchie letture significative poiché confrontando due istanze che via via si fanno sempre più divergenti, emergono con lo srotolarsi narrativo delle correlate nonché inevitabili incrinature, ed ecco perciò il ritornare alla condizione crasica e critica di molteplici duplicità in guerra tra loro, se il genitore rappresenta la ligia tradizione reazionaria, il ragazzo dopo la “resurrezione” scardina la gabbia della propria vita e se ne va a zonzo (non senza un filo di gradita ironia) riproducendo un moto di meravigliata autonomia, e ancora: se il primo, una volta appurato lo spirito di ribellione del primogenito, inizia ad essere tormentato da incubi in cui Sivan rompe il velo contemplativo per iniettare gocce di surreale e dove il senso di colpa dell’uomo nei confronti di Dio si tramuta in un remix Abramo-Isacco (che qui si concretizzerà poiché il macellaio, anche se indirettamente, sarà responsabile della morte definitiva del giovane, l’incidente infatti riguarda una delle mucche da lui liberate), Haim-Aaron più che rinnegare il proprio credo si libera di quella paura che invece attanaglia il papà (animalizzata dal coccodrillo) e si inerpica in un sentiero che invece di portare al Signore porta a se stesso, e come il film illustra non si tratta affatto di un percorso agevole.

Merita due parole anche un altro spiccato dualismo che forse arde più degli altri all’interno di Tikkun poiché in una pellicola così votata ad una ricerca di trascendenza emerge una tensione sessuale che sebbene affiori solo in pochi momenti è capace di terremotare tutto quanto, non è un caso allora che il protagonista batta la testa in seguito ad un’erezione generatasi dal ricordo delle labbra di una sconosciuta, quindi ad una dimensione spirituale incastrata in uno scenario che parrebbe impossibile da inquinare, irrompe una carnalità che è proprio tale: è carne, e lo si intende già dall’inizio con lo scotennamento di una mucca i cui tessuti una volta riposti nel frigo verranno sfiorati da Haim-Aaron come se fossero un sesso femminile (la scena, per rimanere in tema di doppi, si attuerà effettivamente nell’ottimo finale nebbioso), perciò un’immissione erotica nel sigillato recinto dogmatico fa esplodere da dentro gli assiomi introiettati nella testa di quello che alla fine è un ragazzo come gli altri, e ritengo che mettendo un attimo da parte le grandi materie etico-esistenziali che Tikkun affronta, il brillio che folgora maggiormente è dato da quel senso di smarrimento, di non sapere cosa ne sarà della vita che conduciamo, di bramare comunque il femmineo, in cui è implicato Haim-Aaron e che riguarda ognuno di noi cattolici, musulmani, buddisti: esseri umani.

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