Un ventinovenne Giovanni
Davide Maderna firma nel 2002 (o nel 2001 in base ad alcuni siti)
la sua opera seconda dopo Questo è il giardino (1999), e
senza aver potuto visionare l’esordio ma avendo assistito al
Maderna che verrà, si può notare che il regista milanese, almeno ne
L’amore imperfetto, all’inizio ha perseguito un modello di
cinema disinteressato alle potenzialità insite nella forma per
concentrarsi pressoché esclusivamente sugli attributi tramici, e
questo non è mai un bene perché, ed è sempre il solito tedioso
discorso, di cinema del genere se ne produce in quantità sufficiente
a soddisfare il palato degli spettatori medi, a noi che cerchiamo di
spingerci oltre il conoscibile proiezioni di tal fatta lasciano un
deludente sapore insipido. Ci sono alibi come l’acerbità di
Maderna che comunque nel suo piccolo propone un lavoro anche decorso,
o come il periodo di tempo intercorso dalla data di uscita ad adesso
in cui la settima arte si è così evoluta da rendere, oggi, L’amore
imperfetto un prodotto quasi giurassico, e ci sono anche difetti
come un dilatato torpore in cui la storia è calata, e ciò non
riguarda la ricerca di un minimalismo da parte del regista quanto
l’assenza di quell’intensità che anche registri più asciutti
hanno saputo regalarci in passato, ecco tale carenza
energetico-emozionale è ciò che ha maggior peso, più di un cast
disomogeneo (legnoso Lo Verso, meglio la Belaustegui) e più di
alcuni scambi dialogici davvero rigidi, freezati dalla finzione
(quando il poliziotto fa apprezzamenti su Angela o nel flashback in
macchina tra Sergio e la ragazzina suicida… brrr).
Quindi scordiamoci
l’intraprendenza di Cielo senza terra (2010) e Carmela, salvata dai filibustieri (2012), forse ciò che Maderna non è
riuscito a raggiungere con questo film verrà sfiorato anni dopo da
Mirko Locatelli ne I corpi estranei (2013), perché anche
nell’Amore imperfetto c’è un approccio, sebbene non
convincente al 100%, ad un concetto arbitrario come la fede al quale
si collega l’eventualità del miracolo, purtroppo non ci si spinge
in aree di trascendenza, e, c’entrerà poco, ma essendo che il direttore della
fotografia era Yves Cape (collaboratore stretto di Dumont), il tutto poteva
essere gestito meglio nella direzione “oltre il concreto”,
concretezza che è invece l’aia in cui la pellicola razzola
maggiormente dividendosi tra una pista semi-investigativa, un’altra
politica con i risvolti legati alle implicazioni etiche della coppia
verso il figlio, e un’altra ancora drammatico-sentimentale con
esplorazione (poco profonda) della tragedia genitoriale sullo
schermo, scontato rimarcare che nessuna delle tre tracce, men che
meno la prospettiva spirituale, sanno incidere realmente: l’incedere
sottotono, il non raggiungimento di una piena verticalità e una
maturazione stilistica ancora da venire, non hanno reso
indimenticabile L’amore imperfetto né ne legittimano un
recupero odierno.
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