In una scena di Cielo senza terra (2010) Giovanni Maderna confessa al proprio
figlioletto di apprezzare molto i film “semplici” perché sono
quelli che ti invogliano a girarne uno tu stesso, i film troppo
complessi ed elaborati fanno invece desistere da un tentativo di
replica. Il virgolettato sulla parola chiave del concetto è dovuto
al fatto che semplicità non fa rima con banalità, cosa che anche
questo Carmela, salvata dai filibustieri (2012) esprime in
modo ottimale, ed è un’espressione ospitale scritta con
l’inchiostro del cinema-reale, oltre che, prima di tutto, una parte
di un progetto patrocinato da Maderna in persona che per i
centocinquanta anni dalla nascita di Emilio Salgari ha voluto
coinvolgere altri tre registi (Santini che qui co-dirige, Cioni e De
Bernardi) molto lontani dagli schemi dell’avventura (e da qualunque
schema in genere) tentando di far fluire nel loro cinema militante la
letteratura dello scrittore nato a Verona, un’operazione in teoria
ardita ma che, almeno per Carmela, si lascia indietro ogni
rischio per concedersi in una visione che nel suo essere così
amabilmente piccola si colora di malia e di altre gradazioni che ci
consegnano un cinema capace di attraccare nella realtà sviluppando
però quell’infinito potenziale insito nella cosiddetta normalità,
rendendo lo spettatore il testimone di un dispositivo che congiunge
in un unico punto – il film in sé – la ricerca
teorico-stilistica di due autori, le linee tramiche di un romanzo stevensoniano ed il suadente equilibrio che così viene a crearsi,
un’unione felice che rende ancor più felice chi assiste, qui
vediamo cinema mica plastica dei Caraibi.
Prossimità ad un
realismo dunque, a Taranto che si fa Sud del Mondo, alle cozze, alle
strade sporche e sante (bellissimo il movimento di Maderna [o
Santini] che ad un certo punto si allontana dai tre compari per
brancolare in un anonimo spazio urbano che però forte delle parole
appena ascoltate evoca fantasmi), alla vita delle persone qualunque,
eppure, ovviamente, c’è di più: il tocco intensificante che non è
nemmeno tocco ma polvere magica che agisce tramite un processo
finzionalizzante, è un balsamo per gli occhi e la mente, è un’idea
rovesciata di narrazione (già perseguita da Marcello ne La bocca del lupo, 2009) che chi scrive trova quasi commovente e che nel
suo stendersi rivela una forza inesauribile poiché arroccata in
quella “semplicità” sopramenzionata, un incidere in cui si
realizza la vera cifra immaginifica del cinema, quella che si compie
nel fruitore, e che nella manifestazione di libertà offerta sa
alterare il concreto avvalendosi soltanto di singole didascalie, e
allora nel conoscere due umili pescatori tarantini o nell’assistere
ad uno spettacolo di fuochi d’artificio è pressoché gioioso
poterli considerare rispettivamente due pirati o l’illustrazione di
una terribile battaglia navale, il risultato conseguente è
un’avventura rimodulata dai canoni contemporanei che comunque non
smarrisce quello che è lo spirito fondante: la ricerca di una bella
da salvare e le peripezie da superare: è tutto qua, ma
magnificamente trasfigurato in un day by day le cui maglie si
allargano fino a far filtrare un fascio di luce abbacinante, quello
della Settima Arte.
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