mercoledì 11 settembre 2019

Carmela, salvata dai filibustieri

In una scena di Cielo senza terra (2010) Giovanni Maderna confessa al proprio figlioletto di apprezzare molto i film “semplici” perché sono quelli che ti invogliano a girarne uno tu stesso, i film troppo complessi ed elaborati fanno invece desistere da un tentativo di replica. Il virgolettato sulla parola chiave del concetto è dovuto al fatto che semplicità non fa rima con banalità, cosa che anche questo Carmela, salvata dai filibustieri (2012) esprime in modo ottimale, ed è un’espressione ospitale scritta con l’inchiostro del cinema-reale, oltre che, prima di tutto, una parte di un progetto patrocinato da Maderna in persona che per i centocinquanta anni dalla nascita di Emilio Salgari ha voluto coinvolgere altri tre registi (Santini che qui co-dirige, Cioni e De Bernardi) molto lontani dagli schemi dell’avventura (e da qualunque schema in genere) tentando di far fluire nel loro cinema militante la letteratura dello scrittore nato a Verona, un’operazione in teoria ardita ma che, almeno per Carmela, si lascia indietro ogni rischio per concedersi in una visione che nel suo essere così amabilmente piccola si colora di malia e di altre gradazioni che ci consegnano un cinema capace di attraccare nella realtà sviluppando però quell’infinito potenziale insito nella cosiddetta normalità, rendendo lo spettatore il testimone di un dispositivo che congiunge in un unico punto – il film in sé – la ricerca teorico-stilistica di due autori, le linee tramiche di un romanzo stevensoniano ed il suadente equilibrio che così viene a crearsi, un’unione felice che rende ancor più felice chi assiste, qui vediamo cinema mica plastica dei Caraibi.

Prossimità ad un realismo dunque, a Taranto che si fa Sud del Mondo, alle cozze, alle strade sporche e sante (bellissimo il movimento di Maderna [o Santini] che ad un certo punto si allontana dai tre compari per brancolare in un anonimo spazio urbano che però forte delle parole appena ascoltate evoca fantasmi), alla vita delle persone qualunque, eppure, ovviamente, c’è di più: il tocco intensificante che non è nemmeno tocco ma polvere magica che agisce tramite un processo finzionalizzante, è un balsamo per gli occhi e la mente, è un’idea rovesciata di narrazione (già perseguita da Marcello ne La bocca del lupo, 2009) che chi scrive trova quasi commovente e che nel suo stendersi rivela una forza inesauribile poiché arroccata in quella “semplicità” sopramenzionata, un incidere in cui si realizza la vera cifra immaginifica del cinema, quella che si compie nel fruitore, e che nella manifestazione di libertà offerta sa alterare il concreto avvalendosi soltanto di singole didascalie, e allora nel conoscere due umili pescatori tarantini o nell’assistere ad uno spettacolo di fuochi d’artificio è pressoché gioioso poterli considerare rispettivamente due pirati o l’illustrazione di una terribile battaglia navale, il risultato conseguente è un’avventura rimodulata dai canoni contemporanei che comunque non smarrisce quello che è lo spirito fondante: la ricerca di una bella da salvare e le peripezie da superare: è tutto qua, ma magnificamente trasfigurato in un day by day le cui maglie si allargano fino a far filtrare un fascio di luce abbacinante, quello della Settima Arte.

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