Recupero-riempitivo.
Avevo già visto Snowpiercer (2013) al tempo della sua uscita
ma a causa dell’oblio bloggheristico 2014-2015 non ne avevo scritto
nulla, ora, il rewatch a qualche anno di distanza, mi ha più o meno
confermato le vecchie impressioni, ovvero che il primo film di Bong
Joon-ho al di fuori della Corea del Sud è quello che è: un
picchiaduro a scorrimento orizzontale. Lo so, il giudizio può
apparire troppo perentorio ma... sapete cosa? Lo scheletro
videoludico che sorregge lo sviluppo narrativo non è mica da
disdegnare, certo, bisogna porsi nell’ottica di un intrattenimento
che non richiede alcun impegno logico né la possibile soddisfazione
derivante da analisi sottotestuali. A tal proposito, se proviamo ad
avvicinarci con una lente ermeneutica, viene spontaneo un parallelo
con Okja (2017) perché Bong pare molto interessato
ultimamente a trasportare sullo schermo questioni sociali di
stringente attualità, così da una parte abbiamo il tema animalista
per l’opera col super-maiale e dall’altra quella ambientalista
con il treno che viaggia attraverso una nuova era glaciale, la
differenza sostanziale che intercorre tra le due proposte riguarda il
fatto che nella pellicola più recente Bong non smette praticamente
mai di impartire una lezioncina moraleggiante su cosa è bene e cosa
no, qui, almeno, la faccenda del riscaldamento globale è relegata
all’introduzione con tanto di frame dedicato alle scie chimiche, e
ciò è bene perché Snowpiercer sgravandosi
da ogni impegno può dare sfogo
ad una discreta ignoranza con scazzottate, sparatorie e duelli
all’arma bianca che fanno impennare il tasso di tamarraggine.
Chiaro
che quanto vediamo è una voluta allegoria di una rivoluzione
proletaria e che il sistema creato da Wilford è il parallelo di una
società divisa per caste a tenuta stagna, ma è, appunto, talmente
chiaro che non vale
nemmeno la pena addentrarsi in elucubrazioni sofisticate, stiamo
parlando di un fumettone, un condensato di azione che a mio avviso
non ha bisogno di altro che essere guardato in superficie. Allora si
potrebbe anche trarne del piacere: indubbiamente il ritmo impresso da
Joon-ho ed il co-sceneggiatore Kelly Masterson non ha momenti
particolarmente fiacchi e tenendo conto che le due ore si snodano
dentro ad un parallelepipedo di ferro, il film mantiene costantemente
una decisa dinamicità data non tanto, forse, dalla mera sintassi
delle riprese, quanto dal congegno creato (e lo si ribadisce, siamo
nel campo del videogioco) che aumenta il livello di curiosità in
relazione a cosa potrà accadere nel vagone successivo. Il
meccanismo, se ci ragioniamo, è semplice: cosa si nasconderà dietro
la porta? Qui Bong dà una dimostrazione lodevole di estro applicato
al contesto in cui opera, ossia una cornice commerciale, se
Snowpiercer è stato
definito, e credo non a torto, un “blockbuster d’autore”, si
comprende tale dicitura osservando la vena di follia che intesse le
varie carrozze, dal ristorante giapponese (dove tra l’altro si
anticipa il destino dei passeggeri di coda, desinati ad una scandita
eliminazione per mantenere l’equilibrio dell’ecosistema) alla
scuola elementare (efficace la scena che ribalta l’atmosfera [fin
troppo] infantile in una carneficina), il tragitto verso la
locomotiva è, per essere stringati, divertente da vedere.
È
sottinteso che il cinema sperato abita in mondi lontani, ma davvero
lontani, da quello sotto esame, e che nello specifico quello di Bong
lo si preferiva di gran lunga alle prese con storie meno roboanti
(vedi Memorie di un assassino [2003]
e Madre [2009]), ma in
caso, come si suol dire, abbiate bisogno di un po’ di leggerezza
ritengo che Snowpiercer possa
fare al caso vostro, e attenzione, non sto dicendo che sia un lavoro
adatto per spegnere un po’ il cervello poiché il cervello non va
mai spento, nemmeno di fronte a degli scarafaggi trasformati in
gelatina commestibile.
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