giovedì 19 settembre 2019

Snowpiercer

Recupero-riempitivo. Avevo già visto Snowpiercer (2013) al tempo della sua uscita ma a causa dell’oblio bloggheristico 2014-2015 non ne avevo scritto nulla, ora, il rewatch a qualche anno di distanza, mi ha più o meno confermato le vecchie impressioni, ovvero che il primo film di Bong Joon-ho al di fuori della Corea del Sud è quello che è: un picchiaduro a scorrimento orizzontale. Lo so, il giudizio può apparire troppo perentorio ma... sapete cosa? Lo scheletro videoludico che sorregge lo sviluppo narrativo non è mica da disdegnare, certo, bisogna porsi nell’ottica di un intrattenimento che non richiede alcun impegno logico né la possibile soddisfazione derivante da analisi sottotestuali. A tal proposito, se proviamo ad avvicinarci con una lente ermeneutica, viene spontaneo un parallelo con Okja (2017) perché Bong pare molto interessato ultimamente a trasportare sullo schermo questioni sociali di stringente attualità, così da una parte abbiamo il tema animalista per l’opera col super-maiale e dall’altra quella ambientalista con il treno che viaggia attraverso una nuova era glaciale, la differenza sostanziale che intercorre tra le due proposte riguarda il fatto che nella pellicola più recente Bong non smette praticamente mai di impartire una lezioncina moraleggiante su cosa è bene e cosa no, qui, almeno, la faccenda del riscaldamento globale è relegata all’introduzione con tanto di frame dedicato alle scie chimiche, e ciò è bene perché Snowpiercer sgravandosi da ogni impegno può dare sfogo ad una discreta ignoranza con scazzottate, sparatorie e duelli all’arma bianca che fanno impennare il tasso di tamarraggine.

Chiaro che quanto vediamo è una voluta allegoria di una rivoluzione proletaria e che il sistema creato da Wilford è il parallelo di una società divisa per caste a tenuta stagna, ma è, appunto, talmente chiaro che non vale nemmeno la pena addentrarsi in elucubrazioni sofisticate, stiamo parlando di un fumettone, un condensato di azione che a mio avviso non ha bisogno di altro che essere guardato in superficie. Allora si potrebbe anche trarne del piacere: indubbiamente il ritmo impresso da Joon-ho ed il co-sceneggiatore Kelly Masterson non ha momenti particolarmente fiacchi e tenendo conto che le due ore si snodano dentro ad un parallelepipedo di ferro, il film mantiene costantemente una decisa dinamicità data non tanto, forse, dalla mera sintassi delle riprese, quanto dal congegno creato (e lo si ribadisce, siamo nel campo del videogioco) che aumenta il livello di curiosità in relazione a cosa potrà accadere nel vagone successivo. Il meccanismo, se ci ragioniamo, è semplice: cosa si nasconderà dietro la porta? Qui Bong dà una dimostrazione lodevole di estro applicato al contesto in cui opera, ossia una cornice commerciale, se Snowpiercer è stato definito, e credo non a torto, un “blockbuster d’autore”, si comprende tale dicitura osservando la vena di follia che intesse le varie carrozze, dal ristorante giapponese (dove tra l’altro si anticipa il destino dei passeggeri di coda, desinati ad una scandita eliminazione per mantenere l’equilibrio dell’ecosistema) alla scuola elementare (efficace la scena che ribalta l’atmosfera [fin troppo] infantile in una carneficina), il tragitto verso la locomotiva è, per essere stringati, divertente da vedere.

È sottinteso che il cinema sperato abita in mondi lontani, ma davvero lontani, da quello sotto esame, e che nello specifico quello di Bong lo si preferiva di gran lunga alle prese con storie meno roboanti (vedi Memorie di un assassino [2003] e Madre [2009]), ma in caso, come si suol dire, abbiate bisogno di un po’ di leggerezza ritengo che Snowpiercer possa fare al caso vostro, e attenzione, non sto dicendo che sia un lavoro adatto per spegnere un po’ il cervello poiché il cervello non va mai spento, nemmeno di fronte a degli scarafaggi trasformati in gelatina commestibile.

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