La speranza era che le traiettorie registiche di Bong Joon-ho si orientassero più
verso opere come Memorie di un assassino (2003)
o Madre (2009)
piuttosto che The Host (2006)
e Snowpiercer (2013),
ma l’impressione è che il regista sudcoreano, già in passato
maggiormente vicino ad una certa mentalità mainstream rispetto ad
altri colleghi connazionali (anche più di Kim Jee-woon a mio
avviso), preferisca lavorare con budget stratosferici, attori famosi
e troupe ingenti per partorire poi il classico topolino della
montagna, perché Okja
(2017), suvvia, è proprio questo, una massiccia ridda di situazioni
e personaggi che poi si risolvono in una bagatella confezionata ad
hoc. Libertà assoluta ora e sempre per chiunque ha scritto
“regista” alla voce “professione” sulla carta di identità, ma
a quale prezzo per noi spettatori? Il mero prezzo non è nemmeno
quantificabile visto che il film sotto esame non dovrebbe venir
distribuito nella sale (almeno quelle italiane) ma solo sulla
piattaforma di Netflix, tuttavia il prezzo concettuale è invece a
portata d’occhio e ci delinea un quadro che chi scrive trova un po’
scoraggiante, cioè: è una storia, il che potrebbe essere già un
problema, ma proseguiamo: è una storia stereotipata, dicotomizzata e
disneyana, quindi sì, i problemi sono grossi: stufa un film così
perché stufa una strutturazione così elementare degli ingredienti
in gioco, e alla schematizzazione si aggiunge a rimorchio la
prevedibilità, quanto accade è precedentemente accaduto o sarà lì
pronto per farlo, nella stessa pellicola o in un’altra, che poi è
la stessa roba. Può andare qualunque cosa nel campo
dell’intrattenimento, anche un eccesso di forzature
sceneggiaturiali (tipo Mija che entra con disarmante facilità nel
mattatoio) e risoluzioni narrative (come quella finale che salva il
super-suino, da brividi, in negativo ovviamente), ma non un plateale
adagiamento sui modelli precostituiti del bene vs. male e di
un’annessa caratterizzazione convenzionale dei soggetti
interessati.
Alla
fine della favola (cosa che Okja
è) se i vari comparti costituenti possiedono un nucleo banale anche
la controparte sottotestuale si inaridisce, che a dirla tutta non è
neanche tanto “sotto” qui, gli intenti di Bong sono chiari
dall’incipit con la caricaturale (ed anche wesandersoniana)
presentazione della multinazionale capitanata da una Swinton sopra le
righe seguita a ruota da un bizzarro Gyllenhaal, il mantra che da lì
si dispiega è un continuo strizzare l’occhiolino che non smette di
rimarcare l’inefficienza di quelle politiche commerciali irrispettose degli animali, della natura e via dicendo. Non è un contenuto
che si potrebbe definire illuminante. C’è poi un piccolo paradosso
che attraverso una valutazione ex post
viene a crearsi: Bong punta il dito contro la Mirando e i suoi metodi
di produzione, però, se ragioniamo in modo più ampio, con il suo
film non fa che seguire i medesimi canali della Società
statunitense: Okja è
il prodotto di uno sforzo multiculturale dato in pasto al pubblico
una volta terminato e diretto da una persona con
una squadra di collaboratori alle spalle, sicché ogni passaggio in streaming diviene un
pezzetto di maiale che arriva sulle nostre tavole (/schermi), ne
deriva che questo cinema pur bollando i cicli produttivi della
globalizzazione se ne avvale a sua volta per esporsi al mondo intero.
È un cortocircuito forzato da un’interpretazione troppo ostile?
Lascio la risposta aperta per sottoporne subito un’altra: cosa
poteva fare Bong per essere davvero incisivo? In un mondo ideale
avrebbe potuto operare lontano dai riflettori sfornando un oggetto a
suo agio nell’ipotetico sottobosco della denuncia, è pura utopia,
lo so benissimo, in realtà non so cosa avrebbe dovuto e potuto fare,
magari proprio un’altra tipologia di film, come una commedia pura ad
esempio, d’altronde Joon-ho ha sempre saputo integrare bene le
parentesi comiche all’interno di altri registri (la fusione con il
crime l’abbiamo apprezzata tutti nei tempi che furono), ed ora,
dopo le sortite a stelle e strisce, poteva riacquistare una
dimensione più ammirevole con un lavoro in stile Cane che abbaia non morde (2000)... ancora
un’utopia, lo so.
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