Il film che precede la
trilogia di Yusuf è un’opera obitoriale, uno specchio inchiostrato
con un liquido che, alla fine, non può che essere il sangue. Melegin
Düsüsü (2004) di Semih Kaplanoğlu si prende tempistiche e
spazi consoni ad uno spettatore paziente, che sa riconoscere
nell’attesa (spesso vana) il vero nucleo significativo, certo la
pellicola sotto esame fa pur sempre parte di un cinema narrativo
dipendente dai nessi, dalle cause-effetto, tuttavia Kaplanoğlu affidandosi ad uno stile che ricorda un poco talune correnti
centroeuropee (sottrazione, glacialità, lontananza: Haneke), inietta
nel rigor mortis del film delle piccole scosse rivitalizzanti
a partire dall’incipit, probabile quadro metaforico in cui versa la
povera Zeynep, per proseguire con un racconto in ellissi che
scompagina l’andamento liturgico, sono dettagli quasi
impalpabili, bisbigli appena oltre il silenzio diffuso, eppure il
procedimento con cui veniamo a conoscenza delle vicissitudini di
Selçuk obbliga ad una revisione poiché deviante inaspettatamente
dall’ordinario, bisogna stare attenti però, il rischio di non
cogliere si deposita in particolari come la valigia che
scorre sul fiume o allo “strano” riflesso della protagonista una
volta liberatesi dal suo macigno esistenziale. Quindi, un complimento
a Kaplanoğlu è dovuto, la capacità di essere riuscito ad innervare
una storia iper-concreta con alcuni risvolti astratti va annotata
sotto il segno +.
Quanto appena detto deve
comunque fare i conti con la natura stessa di Angel’s Fall.
Perché attraverso uno sguardo globale e collocando il film in un
settore dove ad ogni modo è la linearità a sostanziarne
l’ontologia, si palesa l’impossibilità di sorprendere poiché è
proprio un’opera del genere che affidandosi agli ancorati
meccanismi affabulatori fornisce delle premesse a cui seguiranno
prevedibili accadimenti. Nello specifico è la situazione di Zeynep,
discretamente resa, per carità!, ad attirarsi delle mire di
predizione, l’evidente impraticabilità per la ragazza di
proseguire una tale sottovita comporta delle costrizioni
sceneggiaturiali dove ad un evento inatteso corrisponde il
cambiamento auspicato, che poi Kaplanoğlu concerti il tutto con
sicurezza è cosa buona, d’altronde la triste litania che unisce
indirettamente due forme diverse di solitudine segue un arabesco
tanto semplice (la valigia) quanto intelligente (la culla che ha
portato libertà diventa tomba… galleggiante), il fatto è che già
ex ante, ancor prima di registrare il dipanarsi della faccenda,
era pronosticabile la narrazione così strutturata. Ad una
impostazione che segue binari riconoscibili a distanza io mi oppongo
educatamente, non è affatto un “brutto” film Melegin Düsüsü
ha solo la colpa di essere concettualmente uguale a migliaia di altri
che sono venuti e ad altrettanti migliaia che verranno.
Nessun commento:
Posta un commento