Si annusano delle
mancanze di fondo in Diagnoz (2009), questioni che in modo ben
poco professionale non mi va nemmeno di sviscerare, in estrema
sintesi si tratta di una serie di difetti rintracciabili in molte
produzioni di esordienti o simil tali quale Myroslav Slaboshpytskiy era al tempo della sua partecipazione a Berlino ’09. In rapporto
all’appena successivo Deafness (2010), ma anche a Nuclear Waste (2012) e al debutto nel lungometraggio The Tribe
(2014), Diagnosis, al netto di comprensibili imperfezioni, si
pone come adeguato predecessore dell’impianto drammatico che il
regista ucraino sta tuttora perseguendo. Va ricordato però che in
questo cortometraggio il ricorrere ad una normale dialogicità
esercita l’allineamento ad un cinema che, detto proprio in modo
risoluto, non sconvolge, reazione opposta di quanto Slaboshpytskiy aveva in mente. Si profila un esempio di come la
letteralità insita nella prassi filmica qui sottoforma conversativa
accresca la mole di informazioni che lo spettatore deve ricevere ed
elaborare senza che questo si trasformi in un risultato completamente
positivo. Ritorna sempre, dunque, il discorso per cui il sapere
troppo, indottrinato dalla sceneggiatura, significa ridurre il
livello emotivo/celebrale di chi assiste. Credo che un esempio solare
possa essere supportato dalla tesi per cui Deafness, corto se
vogliamo più asciutto ed essenziale, sappia tendere una sottile
corda tensiogena proprio perché vi è l’espulsione di ogni forma
comunicativa verbale: non sapendo i perché (cosa hanno fatto quei
ragazzini?) gli esiti (il pestaggio) sono molto più investenti.
Ritornando a Diagnoz
mi preme evidenziare ancora la prospettiva che diverge dal lavoro
appena susseguente. La mole descrittiva dello scenario trasmesso
oltre che non essere così inimmaginabile espone una massiccia
quantità di dati necessari a colmare ogni minimo dubbio personale:
il degrado, la tossicodipendenza, l’assenza di speranza, anche se
solo in un quarto d’ora tutto è illustrato a puntino. Lo
squadernamento della narrazione si rivela poi l’escamotage per far
sfociare il film nel proprio tragico apice, sembra che quanto
presentato fino a quel momento non sia che un piedistallo adibito a
mettere in luce la brutalità dell’infanticidio. Oh, chiunque ha un
cuore soffrirà umanamente nel vedere l’insensata azione dell’uomo,
e ciò grazie anche a Slaboshpytskiy che hanekianamente riprende
frontalmente (ma da dietro il vetro dell’ostetricia) l’assassinio,
comunque sia non è abbastanza, la sensazione è che ci sia poco
spazio attivo per noi nel desolato dipinto di Slabo, e al pari degli
infimi prodotti che calibrano la propria gittata per sorprendere con
il finale (prodotti di cui Diagnoz non fa parte), anche il
secondo lavoro del regista di The tribe non crede più di
tanto nelle potenzialità del cinema preferendo infilare la testa
nelle sabbie mobili del racconto.
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