venerdì 21 luglio 2017

Giro di lune tra terra e mare

Primo lavoro di finzione per Giuseppe Mario Gaudino, autore pressoché sconosciuto, almeno fino al secondo film che giungerà molti anni dopo (Per amor vostro, 2015), dove si mette in pratica un’idea di cinema che punta ad una sorta di massimalismo. È già la struttura a non presentarsi in modo singolo, unitario, Giro di lune tra terra e mare (1997) è infatti un’opera duplice che scorre su due parallele che non si incontrano all’infinito, ma a Pozzuoli, luogo di nascita del regista e teatro di un testacoda spazio-temporale. Il primo blocco della pellicola si occupa di quella che potrebbe essere definita *la realtà* col ritratto consanguineo di una famiglia patriarcale del sud, con gli scontri generazionali (la rabbia del figlio durante un’occasione prandiale tocca), e le vicissitudini tragicomiche (i continui traslochi che recidono di volta in volta le possibili radici), il secondo blocco invece mira più in alto astraendosi dalle spire della logicità, Gaudino ricrea un quadro para-storico che riguarda personaggi del passato avvolti dal mito connessi in qualche modo con Pozzuoli come Agrippina o la Sibilla. Il profilo del film è perciò bifronte ma ciò non è tutto perché in aggiunta abbiamo anche filmati d’archivio relativi a, presumo, un vecchio terremoto e se addizioniamo una variegata e spesso presente colonna sonora ecco che Giro di lune tra terra e mare diventa un perfetto manifesto anti minimalista, bisogna “solo” ragionare se così tanti elementi riescono a raggiungere una convincente stabilità.

Ad un tale quesito mi sento di rispondere no, Gaudino non riesce ad equilibrare la mole di roba che erutta dal suo film e questo perché al di là di essere un prodotto molto autobiografico è anche un manufatto autoctono legato linguisticamente (per i non napoletani sarà difficile comprendere la portata narrativa, anche perché buona parte del flusso verbale avviene fuori campo) e culturalmente (la storia del compositore Pergolesi e chissà quant’altri rimandi non colti) alla terra d’origine. Una chiusura del genere impedisce allo spettatore non puteolano un’appagante invasione reciproca, è strano perché molto spesso capita che è proprio in visioni ruvide e centrate sul micro che possono spalancarsi voragini macro, ma per chi scrive non è questo il caso, tuttavia il problema non è tanto il percepibile senso di appartenenza del film alla zona geografica, perché è un fattore ammirevole oltre che legittimo, quanto l’inconciliabilità pratica del doppio binario citato nel primo paragrafo, ché sulla carta andrebbe anche bene visto l’accento bizzarro che somministra, nei fatti però il continuo rimbalzare da un mondo all’altro porta la proiezione sui centoventi minuti e quando il soggetto principale non è la famiglia del pescatore ci si smarrisce in ciò che è il pallido tentativo di un autorialismo. È plausibile la non eccellenza dei mezzi a disposizione (però a produrre c’è la RAI e la potentissima ZDF e nelle vesti di direttore della fotografia Tarek Ben Abdallah, collaboratore di Davide Manuli), mentre ciò che a distanza di vent’anni rimane è l’ambizione di Gaudino, che poco poco non è.

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