Primo lavoro di finzione
per Giuseppe Mario Gaudino, autore pressoché sconosciuto, almeno
fino al secondo film che giungerà molti anni dopo (Per amor vostro, 2015), dove si mette in pratica un’idea di cinema che
punta ad una sorta di massimalismo. È già la struttura a non
presentarsi in modo singolo, unitario, Giro di lune tra terra e
mare (1997) è infatti un’opera duplice che scorre su due
parallele che non si incontrano all’infinito, ma a Pozzuoli, luogo
di nascita del regista e teatro di un testacoda spazio-temporale. Il primo
blocco della pellicola si occupa di quella che potrebbe essere
definita *la realtà* col ritratto consanguineo di una famiglia
patriarcale del sud, con gli scontri generazionali (la rabbia del
figlio durante un’occasione prandiale tocca), e le vicissitudini
tragicomiche (i continui traslochi che recidono di volta in volta le
possibili radici), il secondo blocco invece mira più in alto
astraendosi dalle spire della logicità, Gaudino ricrea un quadro
para-storico che riguarda personaggi del passato avvolti dal mito
connessi in qualche modo con Pozzuoli come Agrippina o la Sibilla. Il
profilo del film è perciò bifronte ma ciò non è tutto perché in
aggiunta abbiamo anche filmati d’archivio relativi a, presumo, un
vecchio terremoto e se addizioniamo una variegata e spesso presente
colonna sonora ecco che Giro di lune tra terra e mare diventa
un perfetto manifesto anti minimalista, bisogna “solo” ragionare
se così tanti elementi riescono a raggiungere una convincente
stabilità.
Ad un tale quesito mi
sento di rispondere no, Gaudino non riesce ad equilibrare la mole di
roba che erutta dal suo film e questo perché al di là di essere un
prodotto molto autobiografico è anche un manufatto autoctono legato
linguisticamente (per i non napoletani sarà difficile comprendere la
portata narrativa, anche perché buona parte del flusso verbale
avviene fuori campo) e culturalmente (la storia del compositore
Pergolesi e chissà quant’altri rimandi non colti) alla terra
d’origine. Una chiusura del genere impedisce allo spettatore non
puteolano un’appagante invasione reciproca, è strano perché molto
spesso capita che è proprio in visioni ruvide e centrate sul micro
che possono spalancarsi voragini macro, ma per chi scrive non è
questo il caso, tuttavia il problema non è tanto il percepibile
senso di appartenenza del film alla zona geografica, perché è un
fattore ammirevole oltre che legittimo, quanto l’inconciliabilità
pratica del doppio binario citato nel primo paragrafo, ché sulla
carta andrebbe anche bene visto l’accento bizzarro che
somministra, nei fatti però il continuo rimbalzare da un mondo
all’altro porta la proiezione sui centoventi minuti e quando il
soggetto principale non è la famiglia del pescatore ci si smarrisce
in ciò che è il pallido tentativo di un autorialismo. È plausibile
la non eccellenza dei mezzi a disposizione (però a produrre c’è
la RAI e la potentissima ZDF e nelle vesti di direttore della
fotografia Tarek Ben Abdallah, collaboratore di Davide Manuli),
mentre ciò che a distanza di vent’anni rimane è l’ambizione di
Gaudino, che poco poco non è.
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