È chiaro, in tutta la
sua non-chiarezza, marginalità e cripticità di come Limbo
(2016) sia scosso nelle viscere da una faglia di origine religiosa
che Konstantina Kotzamani sottolinea già con la didascalia iniziale,
ma non è solo la possibile rappresentazione di una zona insondabile
popolata da anime in bilico, la talentuosa regista ellenica impenna
la propria visione verso altitudini escatologiche dove i concetti
cardinali dell’umanità si metaforizzano in un impianto sì
ermetico ma anche, attraverso procedimenti indicibili e ammalianti,
diafano, cristallino, a suo modo rilucente, Limbo, infatti,
pur costituendosi in toni violacei e slavati, è una scintilla di
cinema d’alta fattura che luccica per il respiro universale che
propaga: Dio, la Madonna, gli Apostoli, Gesù, Giona, in realtà non
vi è nulla di quanto appena elencato sebbene, sempre in realtà (ma
quella fruitiva, che vive nello spettatore), è lampante che vi sia
esattamente ciò, e quindi ecco che la Kotzamani costruisce un bolla
presepiale senza coordinate che ci chiama e ci respinge, che indica e
che nasconde, e credo che al di là di ogni allegoria, sopportabile o
meno, bisogna ammirare un’immagine “normale” come la prima che
però potrebbe essere il senso dell’intero lavoro: un bambino
sborda dallo schermo, ha il colore del cielo dal quale, piace
credere, proviene.
E come viene proposto un
flusso di argomentazioni così sotterranee, ampie ed inafferrabili?
Con uno stile che sembra essersi sgrezzato dell’ubriacante anarchia
di Pigs (2011) in favore di un’estesa sospensione, una piega
placida venata dall’inquietudine, della madreperla vicina alla
crepa. C’è, insomma, un’estetica perfettamente definita e
rifinita (le riprese sono durate quattro mesi, tantissimo per trenta
minuti di proiezione) che caratterizza un mondo a cui crediamo da
subito e che grazie ad oculate scelte, tra tutte l’estromissione
degli adulti (che però si intravedono durante la processione
ardente), seduce lo sguardo offrendo un album fotografico
purgatoriale, la traduzione dantesca di ciò che il Poeta posizionò
oltre le Colonne d’Ercole. Valida, inoltre, la scelta di insignire
delle vesti cristologiche un ragazzetto albino il cui nitore, una
volta giunto al cospetto del nero cetaceo (che deve essere per forza
un tributo a Le armonie di Werckmeister, 2000), crea una
mini-deflagrazione, un contatto vita-morte tra due entità che il
gruppo di bimbi-apostoli non riesce a categorizzare tra i vivi e i
morti, e cosa ne consegue è un mistero che forse sconfina nel
miracolo, in un prodigio soprannaturale dove una verità che resta è
il cinema di Konstantina Kotzamani ed un finale come se ne vedono
pochi.
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