È il
terzo lungometraggio di Lee Isaac Chung e, non avendo visionato i due
precedenti, c’è da prendere un po’ con le molle quanto verrà
detto tra poco perché trattasi, inevitabilmente, di giudizio
limitato e miope, esempio: il primo film del regista
coreano-americano, Munyurangabo (2007),
è ambientato in Ruanda e interpretato in kinyarwanda,
la lingua locale, è un bello scarto rispetto a questo Abigail
Harm
(2012) che, al contrario, è un lavoro miniaturizzato in una New York
di cui non si vede niente, solo gli interni dell’abitazione di
Abigail e l’interno,
l’intimo della donna stessa; insomma, ignorando il percorso
evolutivo (o involutivo) dell’autore, ragioniamo per compartimenti stagni ed il primo dato che va annotato è che il film si poggia
con tutto se stesso sull’attorialità di Amanda Plummer che sfodera
una performance fragile e nervosa davvero rimarchevole colta da un
Chung in modalità stalker che non la abbandona praticamente mai, una
tale preponderanza dell’elemento recitativo non è il massimo della
vita per chi è in cerca di un cinema più radicale, però lo
accettiamo e andiamo avanti, precisamente dove si profila lo slancio
metaforico introduttivo, ovvero: Abigail, leggendo storie per non
vedenti, si sostituisce alla loro immaginazione, è un essere umano
che si dà all’altro e Chung tratteggia ciò con poche componenti
ma ben dosate, la raffigurazione della protagonista intrisa di
solitudine (ed anche un filo di speranza) è, diciamo, accettabile
sebbene non sia davvero niente che i nostri occhi non abbiano già
osservato altrove.
Subito
dopo l’incipit c’è poi uno squarcio di astrazione che sorprende
un minimo: dal nulla appare nel salotto di Abigail un uomo ferito
(poco sotto il costato, non so se possa essere un riferimento
religioso ma in varie recensioni in Rete Will Patton viene associato
ad una specie di figura angelica) che inizia a filosofeggiare
sull’amore, qui la realtà, materia prima che costituisce l’opera,
si apre ad una surrealtà che sfocia nella fiaba (metropolitana), e
quanto accade in seguito, con la timida lettrice che incontra il
principe azzurro asiatico, si colloca in una dimensione sospesa (“are
you real?”), scollata e foriera di alcuni dubbi: è tutto nella
testa di Abigail? Sta accadendo per davvero? La risposta che Chung
fornisce non è però all’altezza delle premesse, quando la
pellicola avrebbe dovuto esprimere il suo potenziale si acquieta nel
riprendere l’avvicinarsi tra i due innamorati in
fieri.
Non vi è chissà quale ampollosità, retorica sentimentale o
smielaggine, la dignità regna e si riesce a percepire (molto in
lontananza, eh) un lirismo che trasforma la coppia in due uccellini
che si sfiorano in volo (la scena sul lungofiume mi ha ricordato
ciò). Va
da sé che il risultato, nonostante contempli un profilo femminile
memorabile e un’atmosfera (un’atmosfera, punto), non si può di
sicuro definire soddisfacente, e mi spiace terminare con un ritrito
“vogliamo di più dal cinema” ma non trovo altri modi per
concludere. Attenzione al finale però, riguardandolo parrebbe aprire
scenari significativi.
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