giovedì 25 giugno 2020

Abigail Harm

È il terzo lungometraggio di Lee Isaac Chung e, non avendo visionato i due precedenti, c’è da prendere un po’ con le molle quanto verrà detto tra poco perché trattasi, inevitabilmente, di giudizio limitato e miope, esempio: il primo film del regista coreano-americano, Munyurangabo (2007), è ambientato in Ruanda e interpretato in kinyarwanda, la lingua locale, è un bello scarto rispetto a questo Abigail Harm (2012) che, al contrario, è un lavoro miniaturizzato in una New York di cui non si vede niente, solo gli interni dell’abitazione di Abigail e l’interno, l’intimo della donna stessa; insomma, ignorando il percorso evolutivo (o involutivo) dell’autore, ragioniamo per compartimenti stagni ed il primo dato che va annotato è che il film si poggia con tutto se stesso sull’attorialità di Amanda Plummer che sfodera una performance fragile e nervosa davvero rimarchevole colta da un Chung in modalità stalker che non la abbandona praticamente mai, una tale preponderanza dell’elemento recitativo non è il massimo della vita per chi è in cerca di un cinema più radicale, però lo accettiamo e andiamo avanti, precisamente dove si profila lo slancio metaforico introduttivo, ovvero: Abigail, leggendo storie per non vedenti, si sostituisce alla loro immaginazione, è un essere umano che si dà all’altro e Chung tratteggia ciò con poche componenti ma ben dosate, la raffigurazione della protagonista intrisa di solitudine (ed anche un filo di speranza) è, diciamo, accettabile sebbene non sia davvero niente che i nostri occhi non abbiano già osservato altrove.

Subito dopo l’incipit c’è poi uno squarcio di astrazione che sorprende un minimo: dal nulla appare nel salotto di Abigail un uomo ferito (poco sotto il costato, non so se possa essere un riferimento religioso ma in varie recensioni in Rete Will Patton viene associato ad una specie di figura angelica) che inizia a filosofeggiare sull’amore, qui la realtà, materia prima che costituisce l’opera, si apre ad una surrealtà che sfocia nella fiaba (metropolitana), e quanto accade in seguito, con la timida lettrice che incontra il principe azzurro asiatico, si colloca in una dimensione sospesa (“are you real?”), scollata e foriera di alcuni dubbi: è tutto nella testa di Abigail? Sta accadendo per davvero? La risposta che Chung fornisce non è però all’altezza delle premesse, quando la pellicola avrebbe dovuto esprimere il suo potenziale si acquieta nel riprendere l’avvicinarsi tra i due innamorati in fieri. Non vi è chissà quale ampollosità, retorica sentimentale o smielaggine, la dignità regna e si riesce a percepire (molto in lontananza, eh) un lirismo che trasforma la coppia in due uccellini che si sfiorano in volo (la scena sul lungofiume mi ha ricordato ciò). Va da sé che il risultato, nonostante contempli un profilo femminile memorabile e un’atmosfera (un’atmosfera, punto), non si può di sicuro definire soddisfacente, e mi spiace terminare con un ritrito “vogliamo di più dal cinema” ma non trovo altri modi per concludere. Attenzione al finale però, riguardandolo parrebbe aprire scenari significativi.

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