sabato 6 giugno 2020

Edge of Democracy - Democrazia al limite

The Edge of Democracy
(2019) sarà probabilmente un momento centrale per la futura carriera di Petra Costa, qualcosa del tipo “niente è stato più come prima”, questo perché il documentario sotto esame, oltre – e forse grazie – alla distribuzione su Netflix, è arrivato addirittura nella cinquina finale degli Oscar ’20 per il Best Documentary Feature (googlate e la vedrete a colloquio con Di Caprio e Brad Pitt), Costa non si è portata a casa il primo premio ma comunque il prestigioso traguardo raggiunto è un meritato riconoscimento al suo lavoro, perché un aspetto che il sottoscritto ha apprezzato non poco è che anche in una produzione più grande e che tratta un argomento “di massa” la regista carioca è riuscita a mantenere un substrato intimo e personale, una venatura aurea che dà quel tocco di umanità in una vicenda in cui al contrario gli esseri umani danno il peggio di sé seguendo le due principali divinità dell’epoca moderna: il denaro ed il potere. Da Elena (2012) (e in modo minore da Olmo e il gabbiano, 2015) arriva la tendenza di mettersi in prima persona all’interno della storia raccontata diventando parte di essa, qui succede poi che è la Storia a tenere banco, la politica del Brasile negli ultimi venti anni. Petra si classicizza se mi si passa il termine, a fronte di una vicenda molto complessa che coinvolge svariati personaggi dell’establishment brasiliano era necessario attenersi ai fatti in modo quasi cronachistico, al contempo però non assistiamo ad una fredda narrazione degli eventi, lo storytelling di Petra nel suo ottimo inglese è coinvolgente e coadiuvato da un parco immagini che ci dà un altro saggio delle sue abilità, si ritorna al discorso di prima: capacità di unire il personale con filmati casalinghi ad altri istituzionali, televisivi o esclusivi (non ho capito se le riprese ravvicinate a Lula e soci siano state fatte direttamente da lei oppure no, restano comunque un bel documento-verità), in un’amalgama che ben raccoglie il clima di febbrile agitazione vissuto in quegli anni.

Petra Costa conduce il suo film cercando di rimanere lucida e abbastanza imparziale (ma anche sincera, la vediamo da giovane in un seggio elettorale votare per il partito di Lula) in modo che una persona non brasiliana che di questa vicenda ha ricevuto giusto delle vacue informazioni (toh: eccomi qua) possa farsi un’idea su come siano andate le cose. Nel processo di ricostruzione attuato dall’autrice, Democrazia al limite, a mano a mano che delinea i passaggi temporali che porteranno l’ex Presidente in prigione, assume sempre più i connotati di un’inchiesta che per fornire un quadro il più esaustivo possibile utilizza accorgimenti differenti, alcuni sono diretti come la trasposizione in video delle intercettazioni tra soggetti coinvolti, altri più sottili come la rapida rassegna delle copertine dei giornali dall’ascesa di Dilma alla sua caduta (e i mass media pare giochino un ruolo importante come sottolineato più volte), ma il meglio lo si coglie nei momenti in cui Petra o chi per lei si mette camera in spalla a stretto contatto con le figure politiche di questo assurdo teatrino, è impressionante la sequenza in cui i vari esponenti, in quello che forse è il parlamento o qualcosa di simile, deliberano per il sì o per il no relativamente all’impeachment di Dilma, solo che non è un normale dibattito ma una furiosa corrida dove i membri dell’opposizione sputano fuori una rabbia che arriva nella stanza dei bottoni del PT con una attonita Dilma di fronte la tv insieme ai suoi collaboratori, non di minore intensità è l’ultimo drammatico comizio di Lula nel quale si lascia andare ad una bellissima metafora sulla primavera prima di comunicare che accetterà la sentenza perché, dopotutto, crede ancora nella giustizia. Insomma, per uno come il sottoscritto, quasi a digiuno di cotanto inghippo brasileiro, gli elementi per costruirsi un’opinione a riguardo ci sono tutti.

E questa è la mia, di opinione: sembra palese che la macchina del fango messa in piedi per spodestare Dilma dalla carica presidenziale sia servita a: 1) aizzare la popolazione contro il partito di riferimento facendo leva sull’immancabile malcontento popolare e 2) ad arrivare al pesce più grosso, a Lula, per legargli le mani ed eliminarlo definitivamente dalla scena governativa. È sicuramente una brutta pagina di Storia che purtroppo, da italiano, non mi stupisce più di tanto, tuttavia permane la preoccupazione perché alla fine chi ci ha guadagnato davvero è solo Bolsonaro, uno dei tanti rappresentanti dell’angosciante piega estremista che ha preso la recente politica mondiale, un reazionario a capo di un Paese immenso con più di duecento milioni di abitanti nonché fondamentale ago della bilancia per mantenere l’equilibrio già piuttosto precario dell’ecosistema terrestre. È per questo che Edge of Democracy va visto, per prendere coscienza, non solo di quello che è accaduto in Brasile e della sua attuale allarmante realtà, ma anche per gli effetti che da lì sono scaturiti, per non trovarci impreparati nel caso in cui un tizio che di solito si mette delle felpe o delle uniformi che non gli appartengono, se ne salisse tutto tronfio a Palazzo Chigi.

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