Non nuovo,
non innovativo, non seminale, Mouton (2013) ha proprio in
queste constatabili negazioni i suoi piccoli pregi perché pur
costituendosi in una forma e in una struttura già visionate miriadi
di volte nel cinema recente, il suo essere mite, ridotto, semplice
gli impedisce di strafare per
rimanere sul pianeta Terra, dentro, davvero dentro la vita anonima di
una cittadina balneare della Normandia. Le cartoline pagane di Dumont
sono un po’ più a nord ma sembra ugualmente di trovarci a Calais o
zone limitrofe, i registi Gilles Deroo e Marianne Pistone, lavorando
con un manipolo di attori non professionisti dai visi consunti dalla
salsedine atlantica e ritraendoli nel loro habitat esistenziale,
promulgano un concetto di verità gradito, che si accetta, che si
accoglie anche nelle sfumature meno attraenti, infatti se pensiamo a
tutta la prima parte non vi è nulla che faccia balzare sulla sedia:
assistiamo ad un routinario processo descrittivo (sempre seguendo i
dogmi del realismo) che delinea la figura di un ragazzo qualunque,
forse un po’ debole e “diverso” dal gruppo (la scena degli
sputi in faccia è significativa in tal senso) ma che comunque si fa
in quattro e che riesce a condurre una vita dignitosa. Poi Deroo &
Pistone sorprendono con una seconda porzione che legittima quella
precedente e che apre scenari concettuali da non sottovalutare.
Diventa
quasi una faccenda musicale: tanto è piano e sequenziale il ritratto
di Mouton, tanto il film diventa discontinuo, sfrangiato (anche
etereo pur rimanendo immerso nel concreto) dopo il tragico accaduto.
Siamo testimoni di un ribaltamento narrativo che non ci aspettavamo,
d’altronde visto che il titolo dell’opera è proprio il nome del
protagonista non era pronosticabile che a metà proiezione il giovane
sparisse dal girato, come del resto non era prevedibile la modalità
con cui la storia viene irrimediabilmente marchiata dal sangue. Per
quanto mi riguarda ho trovato la gestione del climax da parte dei due
autori davvero ottimale, in linea con lo stile privo di inutili
orpelli la violenza, immotivata e cieca come è nella sua essenza,
appare e scompare all’improvviso lasciando un segno ineliminabile:
il male tronca, amputa, nel giro di qualche fotogramma cancella una
vita filmica. Ma, e qui si situa il mio personale apprezzamento, come
si suol dire, la vita (degli altri) continua, come? Normalmente, come
sarà ieri, come sarà domani, così Mouton dopo
aver toccato l’acme, riplana sul suolo interessandosi ad un
trantran che in fondo non avrebbe alcun appeal al pari della
sopravvivenza di Mouton, ma che venendo rapportato a ciò che si è
visto prima si colora, e a sua volta colora la pellicola tutta, di
una malinconia uggiosa dove i gesti quotidiani trasmettono una
tristezza recondita.
Da
un certo punto di vista sembra quasi che i registi instaurino una
specie di dialogo tra gli abitanti del paese e il fantasma di Mouton:
Louis, in una ripresa in dettaglio, deve tranciare un pezzo di carne
rossa, i gemelli hanno un rapporto a tre con una prostituta il cui
sesso viene immortalato a mo’ di citazione del famoso quadro di
Courbet, riportando perciò un’idea di maternità che manca
all’aiuto cuoco (il suo approccio sessuale è concentrato ad una
pseudo-suzione del seno), Mimi dà da mangiare agli ospiti di un
canile (… mentre lui si occupava dei gatti del vicino). È tutto
comunque flebile, pressoché invisibile nel fluire ordinario che
viene presentato (e non rappresentato, la differenza è notevole), va
da sé che quando la lettura è obbligatoriamente tra le righe e
quando l’accessibilità del primo impatto cela invece un’altezza
capace di dare qualche vertigine, chi scrive non può che ricevere
con soddisfazione questo esempio di cinema. Che poi non ci vuole
granché a far breccia nel cuore dello spettatore, è sufficiente una
banale lettera che finisce così: i tuoi amici, che non ti
scorderanno mai. E neanche noi
lo faremo.
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