Da qualche
parte in Giappone, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale,
un ragazzino finisce in una casa abitata da tre persone gravemente
malate e dal guardiano che le accudisce. La partenza di Shureitachi
(2007) è questa ed è anche l’unico punto fermo che abbiamo,
dopodiché il delirio si prende la scena, ma prima di tentare
vanamente a riordinare le idee post-visione, informo, per puro dato
conoscitivo, che il regista Masaki Iwana è un illustre esponente
della danza nipponica butō, il che non cambierà granché la vostra
percezione del film ma comunque, vedendo a volte i personaggi
compiere bislacchi movimenti nella diegesi, almeno potrete intuire le
ragioni di siffatte incomprensibili virate ballerine (senza però,
ovviamente, comprenderne il senso effettivo in relazione alla storia
rappresentata, a meno che non siate esperti di butō, in tal caso
lascerei volentieri la parola a voi). Diciamo che Iwana allestendo
un’opera così sgangherata non prende esattamente per mano lo
spettatore indifeso davanti ad un ammontare di immagini di dubbia
entità, anzi, lo respinge inzuppando la narrazione in un mare
surreale da cui pochissimo viene a galla, frammenti di un discorso
che vorrebbe toccare punti esistenziali (il filosofico, e ridondante,
dialogo tra la donna ed il bambino durante la ricerca del cadavere ce
lo sottolinea) ma che non lascia segni tangibili, se non quelli di
una dilatata seccatura; quanto invece rimane sotto gli intenti
argomentativi è un costante vaneggiamento molto spezzettato di cui è
impossibile tirare le fila, si intuisce che c’entrano svariate
tematiche, tra cui la guerra, il ricordo, la malattia, il sogno e
(forse anche) la religione, di certo a Iwana non interessa di
centrare nulla di tutto ciò e allora si avanza (o si arretra, non
cambia il succo) in totale cecità, la nostra essenzialmente, perché
vedere tanto non sempre significa vedere davvero.
Sul versante
tecnico Vermilion Souls acquista qualche tacca in più
rispetto a quello dei contenuti, il bianco e nero della pellicola non
perde malia e Iwana si rivela abbastanza a suo agio negli spazi
chiusi della magione organizzando il set come un piccolo teatro
onirico (c’è la duplice scena di una fellatio con i suoi
protagonisti ed i relativi astanti) non privo di qualche felice
suggestione (la discesa quasi infernale che si conclude sulla
spiaggia è meritevole d’attenzione), si tratta ad ogni modo di
palliativi che cerchiamo di inghiottire per auto-indorarci la
pillola, infatti anche se la veste estetica può possedere qualche
barlume di fascinazione, l’impressione è che in alcune fasi il
regista e i suoi collaboratori pecchino di un’inesperienza che
filtra da un montaggio confusionario e da un dosaggio delle musiche
poco oculato. Insomma, non mi sentirei proprio di consigliare
Shureitachi e al contempo
sarei curioso di sapere cosa ne pensa una persona che mastica di
cinema altro per
magari venire completamente smentito. Chiudo riportando che le
riprese sono state realizzate tra il Giappone e la Francia e che nel
cast è presente una ragazza italiana di nome Valentina Miraglia
(sarebbe interessante sapere come accidenti è finita lì) che recita
nella nostra lingua al pari di un collega francese, entrambi vengono
compresi dagli altri interpreti orientali in un gioco linguistico che
mi ha rimembrato i lavori di Davide Manuli.
Qui un lungo articolo sul film.
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