venerdì 12 giugno 2020

Vermilion Souls

Da qualche parte in Giappone, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, un ragazzino finisce in una casa abitata da tre persone gravemente malate e dal guardiano che le accudisce. La partenza di Shureitachi (2007) è questa ed è anche l’unico punto fermo che abbiamo, dopodiché il delirio si prende la scena, ma prima di tentare vanamente a riordinare le idee post-visione, informo, per puro dato conoscitivo, che il regista Masaki Iwana è un illustre esponente della danza nipponica butō, il che non cambierà granché la vostra percezione del film ma comunque, vedendo a volte i personaggi compiere bislacchi movimenti nella diegesi, almeno potrete intuire le ragioni di siffatte incomprensibili virate ballerine (senza però, ovviamente, comprenderne il senso effettivo in relazione alla storia rappresentata, a meno che non siate esperti di butō, in tal caso lascerei volentieri la parola a voi). Diciamo che Iwana allestendo un’opera così sgangherata non prende esattamente per mano lo spettatore indifeso davanti ad un ammontare di immagini di dubbia entità, anzi, lo respinge inzuppando la narrazione in un mare surreale da cui pochissimo viene a galla, frammenti di un discorso che vorrebbe toccare punti esistenziali (il filosofico, e ridondante, dialogo tra la donna ed il bambino durante la ricerca del cadavere ce lo sottolinea) ma che non lascia segni tangibili, se non quelli di una dilatata seccatura; quanto invece rimane sotto gli intenti argomentativi è un costante vaneggiamento molto spezzettato di cui è impossibile tirare le fila, si intuisce che c’entrano svariate tematiche, tra cui la guerra, il ricordo, la malattia, il sogno e (forse anche) la religione, di certo a Iwana non interessa di centrare nulla di tutto ciò e allora si avanza (o si arretra, non cambia il succo) in totale cecità, la nostra essenzialmente, perché vedere tanto non sempre significa vedere davvero.

Sul versante tecnico Vermilion Souls acquista qualche tacca in più rispetto a quello dei contenuti, il bianco e nero della pellicola non perde malia e Iwana si rivela abbastanza a suo agio negli spazi chiusi della magione organizzando il set come un piccolo teatro onirico (c’è la duplice scena di una fellatio con i suoi protagonisti ed i relativi astanti) non privo di qualche felice suggestione (la discesa quasi infernale che si conclude sulla spiaggia è meritevole d’attenzione), si tratta ad ogni modo di palliativi che cerchiamo di inghiottire per auto-indorarci la pillola, infatti anche se la veste estetica può possedere qualche barlume di fascinazione, l’impressione è che in alcune fasi il regista e i suoi collaboratori pecchino di un’inesperienza che filtra da un montaggio confusionario e da un dosaggio delle musiche poco oculato. Insomma, non mi sentirei proprio di consigliare Shureitachi e al contempo sarei curioso di sapere cosa ne pensa una persona che mastica di cinema altro per magari venire completamente smentito. Chiudo riportando che le riprese sono state realizzate tra il Giappone e la Francia e che nel cast è presente una ragazza italiana di nome Valentina Miraglia (sarebbe interessante sapere come accidenti è finita lì) che recita nella nostra lingua al pari di un collega francese, entrambi vengono compresi dagli altri interpreti orientali in un gioco linguistico che mi ha rimembrato i lavori di Davide Manuli.
Qui un lungo articolo sul film.

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