Dodici mesi
in dodici Paesi diversi, un monte ore che si immagina spaventoso
condensato in duecentoquaranta minuti di girato, venti minuti circa
per ogni Nazione, dal Niger alla Micronesia passando per la Siberia,
la Finlandia, la Namibia, l’Indonesia, il Canada, la Groenlandia,
l’Australia, l’Italia, l’India e la Cina, questi sono i numeri
di Elsewhere (2001), monumento eretto da Nikolaus Geyrhalter
all’antro-diversità (chiedo scusa per il neologismo), viaggio
intercontinentale che ci porta in luoghi dove difficilmente metteremo
piede e che ci fa sentire lingue e dialetti che le nostre orecchie
non ascolteranno mai, ricerca etnologica dalla composizione
matematica: milleduecento secondi a blocco, rapidi stacchi in nero
come se la mdp fosse due occhi dotati di palpebre (è un marchio di
fabbrica del regista) che spezzano il flusso delle immagini
all’interno di un segmento e di nuovo delle schermate nere, ’sta
volta più lunghe, per scandire il passaggio da un posto all’altro,
registrazione della realtà affiancata a interviste/monologhi della
popolazione autoctona, esattamente come accadeva due anni prima in
Pripyat (1999). Alla luce di cotanto impianto strutturale, lo
sforzo di Geyrhalter appare immane, anche solo la pianificazione
logistica degli spostamenti dell’intero team con acquisto di
biglietti aerei, visti, alloggi e via discorrendo [1] avrà messo a
dura prova il e i tour operator ai quali si è appoggiato, senza
dimenticare inoltre la necessità di stringere contatti con un
“gancio” che lo introducesse nelle culture indigene oltre
ovviamente a tutti gli imprevisti del caso che senza dubbio si
saranno verificati. Insomma, la stima del sottoscritto verso
Geyrhalter si colloca già nella fase preparatoria (non dimentichiamo
che siamo alla fine degli anni ’90 e il ramificato sistema di
prenotazioni fornito dai provider della Rete non era certo come oggi)
che ci restituisce un vero e proprio avventuriero contemporaneo.
Dando una
scorsa agli appunti che ho preso durante la visione di Elsewhere,
mi pare di capire meglio quale sia il macro-argomento affrontato dal
documentario, nella carrellata che attraversa il globo, l’interesse
dell’austriaco si colloca dentro le modalità che permettono a
queste persone di vivere. E allora abbiamo un’esplorazione del
settore primario dove vengono fornite svariate testimonianze di
sussistenza: l’allevamento è l’attività che incontriamo di più,
ed è bello vedere che, sebbene a latitudini lontane, ci siano
modalità identiche che accomunano etnie diversissime nel fare ciò
che facciamo un po’ tutti, ossia tirare avanti, e quindi, dal
nulla, apprendiamo che dei tuareg nigerini preoccupati in futuro di
non trovare più cibo tra i cespugli se la passano allo stesso modo
dei loro colleghi indiani che per costruire un recinto alle capre
usano lo sterco di quest’ultime affastellando le pietre a mo’ di
muretto a secco, e i paralleli da scovare sono il sale del film: nel
gelo della Finlandia al pari della Siberia sono le renne che portano
il pane a casa, in Groenlandia la caccia alle foche riempie la stessa
pancia dei pescatori sardi che bestemmiano sulle acque del
Mediterraneo, una tribù indonesiana abbatte un albero nella foresta
che in Canada viene idealmente trasformato in un totem da dei
discendenti di chissà quale etnia. La globalizzazione di Geyrhalter,
per i suoi protagonisti, è inconsapevole, esiste da prima che il
termine moderno venisse coniato e certamente le sopravviverà.
Perché poi il regista
effettua una mossa che ha dell’herzoghiano (del vecchio Herzog, non
dell’attuale), fissati i paletti del suo studio riesce a
trasmettere delle sfumature umane che guarniscono l’opera, il
pescatore, l’allevatore, l’insegnante, non sono più soltanto il
lavoro che fanno, ma parte di un sistema che a volte è distante da
noi, si veda la bigamia in Namibia o le credenze folkloristiche in
Indonesia, e a volte molto vicino, anche se dall’altra parte della
Terra, perché se i ghiacci si sciolgono gli atolli della Micronesia
vengono sommersi e a poco servirebbero i Christmas drop sganciati con
l’aeroplano.
Per la sua trasversalità
Elsewhere è un inno
all’esistenza umana che si protrae attraverso la storia e la
geografia, una poesia di fratellanza che riduce i chilometri a pochi
centimetri, giusto quelli che separano lo spettatore dallo schermo, e
forse in tal senso val la pensa chiedersi dove sia questo “altrove”,
se in un angolo sperduto del pianeta tra le montagne cinesi oppure
qui, nel cuore della tecnologica Europa, io sono l’altrove per un
ragazzino aborigeno come lui lo è per me. Ad un certo punto in
Micronesia si vede un insegnante che fa lezione a seno scoperto,
d’istinto ho sorriso di fronte ad una situazione a dir poco strana,
ma sono sicuro che la medesima insegnante reagirebbe allo stesso modo
se entrasse in una classe occidentale. Se c’è una morale in
Elsewhere, nonostante
le morali siano alquanto antipatiche, essa diventa sinonimo di
apertura, uno spiraglio da dove far filtrare la diversità che è
intorno a noi per tramutarla in ricchezza, e certo che Geyrhalter
poteva farlo anche più breve, ma, in teoria, poteva essere anche più
lungo, se non infinito, per cui godiamoci questa via di mezzo.
______________________________[1] Questo ragionamento vale se Geyrhalter si è concretamente spostato sulla cartina del mondo per ogni ambientazione ripresa. Se al contrario ha avuto degli operatori in loco che gli hanno mandato il materiale nella sua casetta in Austria, be’, allora il mio discorso decade miseramente.
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