giovedì 4 giugno 2020

Elsewhere

Dodici mesi in dodici Paesi diversi, un monte ore che si immagina spaventoso condensato in duecentoquaranta minuti di girato, venti minuti circa per ogni Nazione, dal Niger alla Micronesia passando per la Siberia, la Finlandia, la Namibia, l’Indonesia, il Canada, la Groenlandia, l’Australia, l’Italia, l’India e la Cina, questi sono i numeri di Elsewhere (2001), monumento eretto da Nikolaus Geyrhalter all’antro-diversità (chiedo scusa per il neologismo), viaggio intercontinentale che ci porta in luoghi dove difficilmente metteremo piede e che ci fa sentire lingue e dialetti che le nostre orecchie non ascolteranno mai, ricerca etnologica dalla composizione matematica: milleduecento secondi a blocco, rapidi stacchi in nero come se la mdp fosse due occhi dotati di palpebre (è un marchio di fabbrica del regista) che spezzano il flusso delle immagini all’interno di un segmento e di nuovo delle schermate nere, ’sta volta più lunghe, per scandire il passaggio da un posto all’altro, registrazione della realtà affiancata a interviste/monologhi della popolazione autoctona, esattamente come accadeva due anni prima in Pripyat (1999). Alla luce di cotanto impianto strutturale, lo sforzo di Geyrhalter appare immane, anche solo la pianificazione logistica degli spostamenti dell’intero team con acquisto di biglietti aerei, visti, alloggi e via discorrendo [1] avrà messo a dura prova il e i tour operator ai quali si è appoggiato, senza dimenticare inoltre la necessità di stringere contatti con un “gancio” che lo introducesse nelle culture indigene oltre ovviamente a tutti gli imprevisti del caso che senza dubbio si saranno verificati. Insomma, la stima del sottoscritto verso Geyrhalter si colloca già nella fase preparatoria (non dimentichiamo che siamo alla fine degli anni ’90 e il ramificato sistema di prenotazioni fornito dai provider della Rete non era certo come oggi) che ci restituisce un vero e proprio avventuriero contemporaneo.

Dando una scorsa agli appunti che ho preso durante la visione di Elsewhere, mi pare di capire meglio quale sia il macro-argomento affrontato dal documentario, nella carrellata che attraversa il globo, l’interesse dell’austriaco si colloca dentro le modalità che permettono a queste persone di vivere. E allora abbiamo un’esplorazione del settore primario dove vengono fornite svariate testimonianze di sussistenza: l’allevamento è l’attività che incontriamo di più, ed è bello vedere che, sebbene a latitudini lontane, ci siano modalità identiche che accomunano etnie diversissime nel fare ciò che facciamo un po’ tutti, ossia tirare avanti, e quindi, dal nulla, apprendiamo che dei tuareg nigerini preoccupati in futuro di non trovare più cibo tra i cespugli se la passano allo stesso modo dei loro colleghi indiani che per costruire un recinto alle capre usano lo sterco di quest’ultime affastellando le pietre a mo’ di muretto a secco, e i paralleli da scovare sono il sale del film: nel gelo della Finlandia al pari della Siberia sono le renne che portano il pane a casa, in Groenlandia la caccia alle foche riempie la stessa pancia dei pescatori sardi che bestemmiano sulle acque del Mediterraneo, una tribù indonesiana abbatte un albero nella foresta che in Canada viene idealmente trasformato in un totem da dei discendenti di chissà quale etnia. La globalizzazione di Geyrhalter, per i suoi protagonisti, è inconsapevole, esiste da prima che il termine moderno venisse coniato e certamente le sopravviverà.

Perché poi il regista effettua una mossa che ha dell’herzoghiano (del vecchio Herzog, non dell’attuale), fissati i paletti del suo studio riesce a trasmettere delle sfumature umane che guarniscono l’opera, il pescatore, l’allevatore, l’insegnante, non sono più soltanto il lavoro che fanno, ma parte di un sistema che a volte è distante da noi, si veda la bigamia in Namibia o le credenze folkloristiche in Indonesia, e a volte molto vicino, anche se dall’altra parte della Terra, perché se i ghiacci si sciolgono gli atolli della Micronesia vengono sommersi e a poco servirebbero i Christmas drop sganciati con l’aeroplano.
Per la sua trasversalità Elsewhere è un inno all’esistenza umana che si protrae attraverso la storia e la geografia, una poesia di fratellanza che riduce i chilometri a pochi centimetri, giusto quelli che separano lo spettatore dallo schermo, e forse in tal senso val la pensa chiedersi dove sia questo “altrove”, se in un angolo sperduto del pianeta tra le montagne cinesi oppure qui, nel cuore della tecnologica Europa, io sono l’altrove per un ragazzino aborigeno come lui lo è per me. Ad un certo punto in Micronesia si vede un insegnante che fa lezione a seno scoperto, d’istinto ho sorriso di fronte ad una situazione a dir poco strana, ma sono sicuro che la medesima insegnante reagirebbe allo stesso modo se entrasse in una classe occidentale. Se c’è una morale in Elsewhere, nonostante le morali siano alquanto antipatiche, essa diventa sinonimo di apertura, uno spiraglio da dove far filtrare la diversità che è intorno a noi per tramutarla in ricchezza, e certo che Geyrhalter poteva farlo anche più breve, ma, in teoria, poteva essere anche più lungo, se non infinito, per cui godiamoci questa via di mezzo.
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[1] Questo ragionamento vale se Geyrhalter si è concretamente spostato sulla cartina del mondo per ogni ambientazione ripresa. Se al contrario ha avuto degli operatori in loco che gli hanno mandato il materiale nella sua casetta in Austria, be’, allora il mio discorso decade miseramente.

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