Un po’
come il gigantesco buco nero lasciato dalla seconda guerra mondiale,
anche il disastro di Černobyl’ continua ad essere fonte di
inesauribile ispirazione per la letteratura, il cinema, la musica e i
videogiochi, prova ne è il grande successo (ma davvero meritato?)
ottenuto dalla miniserie HBO del 2019. Con Pripyat
dobbiamo andare indietro di qualche anno, precisamente nel 1999, per
trovare un giovane Nikolaus Geyrhalter che camera in spalla se ne va
in giro per l’omonima cittadina andando a scovare i pochissimi
abitanti che avevano deciso di tornare a vivere lì, sotto un certo
punto di vista il documentario è concettualmente molto simile ad uno
più recente dal titolo The Babushkas of Chernobyl
(2015), ma se in quest’ultimo film rimarcavo l’assenza di un
taglio autoriale che sapesse dare una spinta in più alla visione,
per Pripyat,
al contrario, si può affermare che c’è una maggiore attenzione
all’estetica (si noti anche solo la scelta del bianco e nero),
niente da tramandare ai posteri, però nel complesso si respira un
altro tipo di atmosfera, sicuramente meno dozzinale. Se esiste un
problema si tratta di una questione da cui Geyrhalter è
completamente esentato, oggi, nel 2020, basta scrivere la parola
Černobyl’ su YouTube per venire inondati da video di vlogger,
avventurieri 2.0 o semplici imbecilli che si sono inoltrati nei
territori post-esplosione, questo ha deprezzato l’eccezionalità
del vedere un luogo del genere perché ormai è alla portata anche di
un bambino, sicché assistendo a Pripyat
è
inevitabile tirare il freno a mano dell’entusiasmo, detto in modo
sbrigativo, a livello di informazioni qui non vi è niente che non
sia già rintracciabile in Rete con un banale click.
Rispetto
agli altri due doc già visionati di Geyrhalter, Abendland
(2011) e Homo Sapiens
(2016, allora l’attrazione verso paesaggi disastrati è una
costante!), Pripyat
rientra in un modello maggiormente classicheggiante, in buona
sostanza abbiamo delle interviste a persone locali (residenti,
dottori, addetti alla centrale) alternate a vedute dei dintorni
desolati. Se vi accontentate, e io credo che possiate farlo, il
risultato globale raggiunge la piena sufficienza e, complice
probabilmente l’assenza di colori che slavano un mondo oltremodo
slavato, non lesina una certa forza suggestiva che potrete percepire
durante i vari incontri. Piuttosto interessanti sono quelli che
avvengono all’interno di uno dei reattori ancora in funzione (verrà
poi chiuso tutto nel 2000), non foss’altro perché in linea di
massima della centrale nucleare abbiamo sempre visto o ricostruzioni
o filmati d’archivio, come non è affatto male la lunga sequenza
senza tagli in cui la mdp pedina una scienziata che lavorava ancora da
quelle parti fin dentro l’appartamento dove viveva con la sua
famiglia, ovviamente, a parte i quaderni del figlio minore, non è
rimasto nulla, perché, e ce lo confermano le immagini susseguenti
che riprendono in serie delle stanze abbandonate, se qualcosa è rimasto
a Pripyat è solo un vuoto inesorabile. Ciononostante era doveroso
controbattere a questa assenza con la presenza resistenziale di due
vecchietti che in barba alle radiazioni vanno a prendere l’acqua
nel lago ghiacciato e ci dicono con grande sincerità che in quel
posto ci sono nati e che in quel posto ci vorranno morire, una
conclusione degna ed un filo poetica per un film ordinato e senza
sbavature, i cultori dell’argomento approveranno.
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