mercoledì 6 maggio 2020

Pripyat

Un po’ come il gigantesco buco nero lasciato dalla seconda guerra mondiale, anche il disastro di Černobyl’ continua ad essere fonte di inesauribile ispirazione per la letteratura, il cinema, la musica e i videogiochi, prova ne è il grande successo (ma davvero meritato?) ottenuto dalla miniserie HBO del 2019. Con Pripyat dobbiamo andare indietro di qualche anno, precisamente nel 1999, per trovare un giovane Nikolaus Geyrhalter che camera in spalla se ne va in giro per l’omonima cittadina andando a scovare i pochissimi abitanti che avevano deciso di tornare a vivere lì, sotto un certo punto di vista il documentario è concettualmente molto simile ad uno più recente dal titolo The Babushkas of Chernobyl (2015), ma se in quest’ultimo film rimarcavo l’assenza di un taglio autoriale che sapesse dare una spinta in più alla visione, per Pripyat, al contrario, si può affermare che c’è una maggiore attenzione all’estetica (si noti anche solo la scelta del bianco e nero), niente da tramandare ai posteri, però nel complesso si respira un altro tipo di atmosfera, sicuramente meno dozzinale. Se esiste un problema si tratta di una questione da cui Geyrhalter è completamente esentato, oggi, nel 2020, basta scrivere la parola Černobyl’ su YouTube per venire inondati da video di vlogger, avventurieri 2.0 o semplici imbecilli che si sono inoltrati nei territori post-esplosione, questo ha deprezzato l’eccezionalità del vedere un luogo del genere perché ormai è alla portata anche di un bambino, sicché assistendo a Pripyat è inevitabile tirare il freno a mano dell’entusiasmo, detto in modo sbrigativo, a livello di informazioni qui non vi è niente che non sia già rintracciabile in Rete con un banale click.

Rispetto agli altri due doc già visionati di Geyrhalter, Abendland (2011) e Homo Sapiens (2016, allora l’attrazione verso paesaggi disastrati è una costante!), Pripyat rientra in un modello maggiormente classicheggiante, in buona sostanza abbiamo delle interviste a persone locali (residenti, dottori, addetti alla centrale) alternate a vedute dei dintorni desolati. Se vi accontentate, e io credo che possiate farlo, il risultato globale raggiunge la piena sufficienza e, complice probabilmente l’assenza di colori che slavano un mondo oltremodo slavato, non lesina una certa forza suggestiva che potrete percepire durante i vari incontri. Piuttosto interessanti sono quelli che avvengono all’interno di uno dei reattori ancora in funzione (verrà poi chiuso tutto nel 2000), non foss’altro perché in linea di massima della centrale nucleare abbiamo sempre visto o ricostruzioni o filmati d’archivio, come non è affatto male la lunga sequenza senza tagli in cui la mdp pedina una scienziata che lavorava ancora da quelle parti fin dentro l’appartamento dove viveva con la sua famiglia, ovviamente, a parte i quaderni del figlio minore, non è rimasto nulla, perché, e ce lo confermano le immagini susseguenti che riprendono in serie delle stanze abbandonate, se qualcosa è rimasto a Pripyat è solo un vuoto inesorabile. Ciononostante era doveroso controbattere a questa assenza con la presenza resistenziale di due vecchietti che in barba alle radiazioni vanno a prendere l’acqua nel lago ghiacciato e ci dicono con grande sincerità che in quel posto ci sono nati e che in quel posto ci vorranno morire, una conclusione degna ed un filo poetica per un film ordinato e senza sbavature, i cultori dell’argomento approveranno.

Nessun commento:

Posta un commento