Con Morrer Como Um Homem
(2009) João Pedro Rodrigues inizia davvero a fare sul serio;
se vediamo il film diviso in due unità separate ma
reciprocamente dipendenti, nella prima è possibile
rintracciare i tipici “segni particolari” dell’autore
portoghese: la corrente sentimentale fra Tonia e Rosário si
genera dal precedente Odete (2005) riacciuffandone le sfumature
avariate, d’amore sporco, tangenti la disperazione (ad esclusione
del finale in ospedale non verrà mai schiacciato a fondo il
pedale del dramma nonostante gli argomenti narrati navighino tra
povertà, droga, vecchiaia, morte, eccetera), in aggiunta
Rodrigues si concentra nuovamente sull’identità dei suoi
personaggi e chiaramente mescola il tutto, rende plurale il
singolare, sdoppia i ruoli, li accoppia in un procedimento spurio:
non solo il genere di Tonia è ibrido per via della sua
transessualità (il grande passo identificativo sarebbe
la conversione sessuale in sala operatoria), ma anche nella sfera
familiare ricopre due posizioni diverse senza effettivamente
ricoprirne nessuna, è padre biologico (ma non per Zé
Maria che nell’incipit dice “mio padre è morto!) e madre
travestita (quindi aspramente rifiutata); dalla non-accettazione del
figlio di avere un trans come genitore nasce probabilmente l’amore
verso il giovane Rosário (Tonia stessa dirà che quando
girano insieme vengono scambiati per parenti stretti) a sottolineare
gli intrecci impuri che danno luogo ad una ragnatela di perdizione
personale e sociale dove paradossalmente Tonia si pone come ultimo
baluardo di una morale intima finanche religiosa.
La seconda parte cambia
marcia rispetto alla prima. Le tematiche sopraelencate restano brace
che silenziosamente continua ad ardere, però Rodrigues decide
di (s)vari(on)are, non più l’aderenza al reale, non più
Lisbona ma una magione isolata nella campagna. La gita fuori porta
della coppia si trasforma in viaggio interiore dove il bosco diviene
paesaggio dell’anima e la bizzarra proprietaria di casa, anch’essa
transessuale e presente nell’enigmatico prologo dove (forse) assume
i tratti di una simbolica sineddoche dell’alterità che
l’etero Zé Maria non vuole eliminare perché riporta
alla mente un’epifania paterna, un Cicerone che (ri)conduce l’io
di Tonia nella sua custodia. L’importanza di questo segmento, così
scollato e stonato in confronto a quanto veduto fino a poco prima, si
riverbera in ciò che accade dopo, infatti il regista non farà
proseguire il tragitto di Tonia e Rosário verso la meta
iniziale, ovvero il fratello di quest’ultimo, ma li riporterà
a casa e subito la drag queen in via di pensionamento giungerà
alla chiusura del cerchio, letteralmente dissotterrerà i
propri ricordi in un’emersione dolorosa e denudante: tolti gli
abiti femminili, i boccoli alla Shirley
Temple e i seni che
erano stati i primi a dare segnali di cedimento, resta l’Uomo, e
attenzione non l’uomo, al cospetto dell’improrogabile
Fine.
In questa vicenda che
finisce per intristire anche il più ottimista degli
spettatori, Rodrigues ci mette lo stile di chi il cinema lo sa fare,
e bene. Il sottoscritto apprezza sempre quando la razionalità
è arieggiata da spiragli d’inventiva anche slegati al
contesto, e qui c’è di che gioire: il regista piazza di
sovente delle finestre musicali cantate direttamente dagli attori in
scena, le troviamo in un cimitero, dal parrucchiere, su un
automobile, sono schegge autonome perfette per ossigenare il rigore
tecnico e rendere palpabile l’estro che si mette a disposizione del
cinema; non solo il grande e splendidamente grottesco finale la cui
canzone intonata da Tonia è sintesi precisa di quanto si è
visto, ma anche e soprattutto l’intermezzo nella radura con tanto
di crepuscolare alterazione cromatica, quando si dice che una singola
scena vale il prezzo del biglietto.
Nessun commento:
Posta un commento