Pinku eiga con
discreto grado di consapevolezza, lignaggio medio-alto: non solo il
regista Shinji Imaoka è, a quanto si legge in Rete, un
profondo conoscitore del genere avendo basato la sua carriera su
questa versione giapponese del softcore, ma c’è
soprattutto un ordito professionale più elaborato rispetto a
normali pink-movie: a monte ci sono gli euro della tedesca
Rapid Eye Movies, compagnia dedita alla distribuzione con parentesi
produttive (uno dei peggiori film di Sono, The Land of Hope [2012],
annovera anche un loro finanziamento), e inoltre non si può
non citare la presenza di Christopher Doyle, direttore della
fotografia che nella sua lunga carriera ha lavorato fianco a fianco
con alcuni dei registi più importanti della nostra epoca,
orientali e non.
Con delle premesse così
è logico che Onna no kappa (2011) abbia poco da
spartire nella categoria in cui si tenta di incastrarlo, quel poco è
dato da inserti sessuali (rigorosamente privi di nudi frontali, la
legislatura in merito lo vieta) comunque poveri di malizia e di
contro, come già appurato in molte altre opere nipponiche,
ricchi di singolarità che rendono il sesso un atto bislacco,
quasi infantile, al massimo adolescenziale, qui incrementato da
tonnellate di weird con membri rettili (sì, l’assenza
di una “e” lì davanti è assolutamente voluta) e
“perle anali” (una dicitura che non ha bisogno di ulteriori
approfondimenti) dal potere taumaturgico.
Perché Underwater
Love (e per una volta non crocifiggiamo solo i titolisti
italiani, anche questo di titolo lascia parecchio a desiderare) è
un film dannatamente bislacco in cui le stramberie erotiche, ad ogni
modo brevi e, come detto, molto caste, cedono il passo ad un soggetto
folle che ha uno sviluppo sulla medesima falsariga; la proliferazione
di “cose” stravaganti va necessariamente citata: alla base di
tutto c’è la presenza di un Kappa, figura del folklore
giapponese che ama l’acqua e i cetrioli (un gradimento che nel
contesto filmico non stupisce affatto), qui nelle vesti post
mortem di un vecchio compagno di scuola della protagonista;
l’aspetto di questo Kappa è un incrocio tra un umano e una
sorta di tartaruga, infatti l’essere
ha l’anatomia di un uomo con in più uno scudo sulla schiena,
pseudo-becco-muso, mani e pene squamosi, calotta cranica in vista.
Oltre a tale creatura, assolutamente parodizzata a partire dal trucco
amatoriale (plausibile omaggio ai monster –movie d’epoca o
altrettanto possibile effetto di un budget limitato), la pellicola in
tutta la sua interezza non ha la benché minima voglia di
scendere a patti con la realtà e quindi si impegna
costantemente a deragliare nell’assurdo, ad esacerbare la
componente sentimentale fino a renderla ridicola (le due storie
d’amore parallele sono talmente insulse e sciocche, talmente
portate all’eccesso, che risultano più veritiere di
qualunque rom-com), innaffiando periodicamente la storia con
improbabili stacchetti musicali. E tutto svolto con quella
consapevolezza più o meno accentuata, dote fondamentale citata
all’inizio.
La pochezza
contenutistica (anche se le tematiche nel finale aprono spiragli di
profondità) similare ad un’esiguità espositiva
(probabilmente digitale, probabilmente non per vezzo ma per esigenza)
lasciano pochi residui degni di nota, ciononostante il film di Imaoka
rivela a modo suo la capacità di sottolineatura mitopoietica
del cinema, laddove il mito è doppio: il primo è la
leggenda del Kappa, punto irremovibile della vicenda che tra l’altro,
con i ravvicinati rapporti sessuali del finale, spezza un sortilegio
come nelle migliori tradizioni fiabesche, mentre il secondo mito, che
potrebbe essere virgolettato, è il remix del genere
pink: riadattazione, rivisitazione, esplorazione,
rianimazione.
Il sesso è
periferia, il centro un prisma anarchico.
Nessun commento:
Posta un commento