lunedì 14 settembre 2015

Underwater Love

Pinku eiga con discreto grado di consapevolezza, lignaggio medio-alto: non solo il regista Shinji Imaoka è, a quanto si legge in Rete, un profondo conoscitore del genere avendo basato la sua carriera su questa versione giapponese del softcore, ma c’è soprattutto un ordito professionale più elaborato rispetto a normali pink-movie: a monte ci sono gli euro della tedesca Rapid Eye Movies, compagnia dedita alla distribuzione con parentesi produttive (uno dei peggiori film di Sono, The Land of Hope [2012], annovera anche un loro finanziamento), e inoltre non si può non citare la presenza di Christopher Doyle, direttore della fotografia che nella sua lunga carriera ha lavorato fianco a fianco con alcuni dei registi più importanti della nostra epoca, orientali e non.
Con delle premesse così è logico che Onna no kappa (2011) abbia poco da spartire nella categoria in cui si tenta di incastrarlo, quel poco è dato da inserti sessuali (rigorosamente privi di nudi frontali, la legislatura in merito lo vieta) comunque poveri di malizia e di contro, come già appurato in molte altre opere nipponiche, ricchi di singolarità che rendono il sesso un atto bislacco, quasi infantile, al massimo adolescenziale, qui incrementato da tonnellate di weird con membri rettili (sì, l’assenza di una “e” lì davanti è assolutamente voluta) e “perle anali” (una dicitura che non ha bisogno di ulteriori approfondimenti) dal potere taumaturgico.

Perché Underwater Love (e per una volta non crocifiggiamo solo i titolisti italiani, anche questo di titolo lascia parecchio a desiderare) è un film dannatamente bislacco in cui le stramberie erotiche, ad ogni modo brevi e, come detto, molto caste, cedono il passo ad un soggetto folle che ha uno sviluppo sulla medesima falsariga; la proliferazione di “cose” stravaganti va necessariamente citata: alla base di tutto c’è la presenza di un Kappa, figura del folklore giapponese che ama l’acqua e i cetrioli (un gradimento che nel contesto filmico non stupisce affatto), qui nelle vesti post mortem di un vecchio compagno di scuola della protagonista; l’aspetto di questo Kappa è un incrocio tra un umano e una sorta di tartaruga, infatti l’essere ha l’anatomia di un uomo con in più uno scudo sulla schiena, pseudo-becco-muso, mani e pene squamosi, calotta cranica in vista. Oltre a tale creatura, assolutamente parodizzata a partire dal trucco amatoriale (plausibile omaggio ai monster –movie d’epoca o altrettanto possibile effetto di un budget limitato), la pellicola in tutta la sua interezza non ha la benché minima voglia di scendere a patti con la realtà e quindi si impegna costantemente a deragliare nell’assurdo, ad esacerbare la componente sentimentale fino a renderla ridicola (le due storie d’amore parallele sono talmente insulse e sciocche, talmente portate all’eccesso, che risultano più veritiere di qualunque rom-com), innaffiando periodicamente la storia con improbabili stacchetti musicali. E tutto svolto con quella consapevolezza più o meno accentuata, dote fondamentale citata all’inizio.

La pochezza contenutistica (anche se le tematiche nel finale aprono spiragli di profondità) similare ad un’esiguità espositiva (probabilmente digitale, probabilmente non per vezzo ma per esigenza) lasciano pochi residui degni di nota, ciononostante il film di Imaoka rivela a modo suo la capacità di sottolineatura mitopoietica del cinema, laddove il mito è doppio: il primo è la leggenda del Kappa, punto irremovibile della vicenda che tra l’altro, con i ravvicinati rapporti sessuali del finale, spezza un sortilegio come nelle migliori tradizioni fiabesche, mentre il secondo mito, che potrebbe essere virgolettato, è il remix del genere pink: riadattazione, rivisitazione, esplorazione, rianimazione.
Il sesso è periferia, il centro un prisma anarchico.

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