venerdì 18 settembre 2020

Between Two Worlds

Un uomo cade giù dal cielo e inizia a girovagare in un mondo scosso da violenti tumulti.

Per Vimukthi Jayasundara l’unico modo che ha di raccontare il proprio Paese d’appartenenza, lo Sri Lanka, è quello di fondere insieme gli estremi, ce lo aveva già fatto vedere in parte con il precedente The Forsaken Land (2005), lo ribadisce quattro anni dopo con il lungometraggio presentato a Venezia’ 09. Ahasin Wetei (2009) ha infatti un’essenza binaria che chiama in causa direttamente lo spettatore in un processo di ardua ma soddisfacente comprensione: abbiamo una realtà possibile oltre lo schermo simbolizzata da un non precisato gruppo insurrezionalista (le spiegazioni stanno a zero: loro distruggono tv e computer, noi, al pari di Rajith, restiamo attoniti), quasi invisibile sebbene sempre incombente (da elogiare la scena nella radura in cui il pericolo non è mostrato esplicitamente ma si muove mimetizzandosi nei cespugli), e, di contro, registriamo una spessa porzione narrativa legata alla tradizione e al folklore, è un’iniezione surreale presentata da due pescatori i quali, in un procedimento non nuovo nel cinema contemporaneo (penso a Miguel Gomes), si fanno menestrelli interni anticipando e ipotizzando il ruolo dello smarrito protagonista. La miscela delle due istanze è sorretta da uno stile ammirevole in cui il regista (comunque piuttosto giovane all’epoca, è del ’ 77) sembra aver digerito bene la lezione dei grandi maestri orientali, il suo sguardo si modella in lunghe riprese che esplorano la profondità dell’ambiente cercando di non far precipitare la forma in ostinata estetizzazione, e, per chi scrive, si riesce ad evitare alla grande tale trappola.

Potrebbe apparire un difetto a coloro i quali preferiscono il dettato al tema libero il fatto che Between Two Worlds più progredisce e più sembra sfaldarsi, perdere il fulcro abbandonandosi alle visioni pressoché oniriche del suo demiurgo, a mio avviso è invece esattamente qua che la faccenda si fa molto ma molto interessante: una volta sradicati gli assi cardinali lo spazio e il tempo si confondono senza che vi sia possibilità di far ritorno, d’altronde lo sottolinea l’anziano che nuota nel corso d’acqua: “a volte le cose del passato ritornano nel presente”. Nella sensazione di esteso smarrimento percepito, messo a punto da situazioni e personaggi che vale la pena non dimenticare, l’autore delegittima anche una delle poche certezze acquisite, ossia la statura, per così dire, etico-morale di Rajith. Ad onor del vero già dall’episodio sul furgone con la donna cinese si insinua il dubbio che la presunta indole divina sia macchiata da istinti bassamente umani, dopodiché, attraverso una sintassi che col finale distrugge la linearità, siamo testimoni di un’eventualità (il lato oscuro e sanguinoso) che non accade realmente, nonostante si è consci del fatto che qui la realtà non esista. Siffatte congetture sposano la tesi di questa vecchia e condivisibile recensione in cui il nostro eroe (?) più che un un dio caduto dal cielo o un Principe favolistico, sembra un angelo espulso dal firmamento, una specie di Lucifero cingalese che stramazzato sulla Terra viene investito dalla greve atmosfera circostante fatta di bestialità ed efferatezze. Jayasundara poi è coraggioso nei minuti conclusivi con l’impostazione di un misterioso balletto sulle rive fluviali che pare l’incubo di un impresario di Broadway, non chiediamoci cosa succede (altro travasamento di ieri nell’oggi? Quella gente a cavallo...), ma domandiamoci, invece, che cosa trasmette l’espressione terrorizzata all’interno del tronco. A chi bolla Ahasin Wetei come insolente e pretenzioso io rispondo no: no, per quanto possa contare, l’ho apprezzato davvero tanto.

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