Nella limitatezza del corto si profilano un paio di immagini colte ad hoc: il campo lunghissimo in mare aperto dell’inizio, lo spaventapasseri con tanto di life jacket che è un po’ l’apice simbolico del film sottolineato da un tappeto musicale e l’ultima istantanea frontale dove un altro mare, o meglio: un altro cielo, è costellato da puntini luminosi che designano un funereo firmamento. Come dicevo prima Zois imbastisce il lavoro con mestiere, c’è da chiedersi però se la professionalità sia sufficiente a toccare davvero la coscienza dello spettatore perché ad essere sincero non potrei mai dire che Eighth Continent mi abbia realmente colpito, né cerebralmente né emotivamente, ma questo è un aspetto che bene o male ho riscontrato anche nelle altre produzioni del regista ateniese.
lunedì 14 settembre 2020
Εighth Continent
Non è nuovo
Yorgos Zois ad affrontare tematiche di attualità nei suoi
cortometraggi (stranamente nell’unico lungo da lui girato,
Interruption [2015], ha
invece scelto tutt’altra strada), questo Eighth Continent
(2017, indicato anche col nome
8th Continent) tratta
della sempre urgente questione dei migranti e lo fa in modo diverso
rispetto al successivo Third Kind
(2018) perché qui si filma l’assenza dei disperati attraverso la
presenza di ciò che rimane del loro passaggio: giubbotti di
salvataggio, una montagna di giubbotti arancioni sorta sull’isola
di Lesbo. È una visione laterale, non esplicita, impostata con
mestiere (è quasi landscape cinema pur, ovviamente, non essendolo),
che per certi versi non si discosta dalla concettualità di Out of Frame (2012), ovvero il
raccontare di una crisi (e Zois da uomo europeo e greco ha le
credenziali per farlo, sia nell’area economica che in quella
sociale) occupandosi di conseguenze minime, praticamente
inessenziali, ma che comunque con la carica estetica che possiedono
riportano i ragionamenti al drammatico argomento principale.
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