venerdì 14 febbraio 2020

Interruption

Già con i suoi due cortometraggi d’esordio, Casus Belli (2010) e Out of Frame (2012), Yorgos Zois aveva dimostrato sì di far parte della new wave greca, ma in modo piuttosto disallineato, distante dai dettami di Lanthimos. Con il lungometraggio di debutto Interruption (2015), inspiegabilmente distribuito in Italia tre anni dopo, il regista greco conferma a mio avviso questa tendenza, è un film che potrebbe rientrare nella categoria di riferimento ma da un ingresso laterale, non possiede un’intelaiatura orientata al paradosso per spiegare il proprio credo, sebbene comunque si fondi in tutto e per tutto su un’idea di tipo simbolico per esporre la sua tesi. Ad ogni modo, a prescindere dall’appartenenza o meno al recente canone ellenico, il lavoro di Zois si rivela abbastanza ambizioso e rivolto ad una fetta di pubblico che mastica almeno un po’ di tragedia greca, nello specifico l’Orestea, fetta in cui ahimè non posso sicuramente rientrare poiché nulla so della trilogia di Eschilo, e questo può essere un limite perché ho il sentore che la reinterpretazione di Zois dialoghi in modo serrato con il testo d’origine e pertanto è altamente probabile che io, e tutti quelli come me, non abbiamo colto connessioni e legami tra i due spettacoli. Limitandoci a quanto si vede sullo schermo, è apprezzabile la messa in scena di Zois che allestisce su un palco teatrale un dramma in cui non manca mai il serpeggiare di una tensione costante e aiutato da un’impostazione che più minimale non si può (c’è un gruppo di persone su un palcoscenico, stop), il regista elimina gli orpelli scenici per operare di metanarrazione, è questo il canale principe voluto e perpetrato dall’istante in cui il Coro prende possesso della scena ed il capo (leggi: il regista, rileggi: l’alter ego di Zois) comincia a rimodulare secondo un altro credo la pièce fino a quel momento regolarmente portata avanti.

Ogni volta che si finisce nell’area delle meta-riflessioni c’è sempre il rischio di inflazionare un discorso di per sé già piuttosto inflazionato. Scoperchiare i meccanismi della narrazione e fare di questo scoperchiamento l’essenza stessa dell’opera è una procedura risaputa con cui ormai fatico parecchio ad entrare in confidenza. O sono robe veramente illuminanti e geniali, oppure subodoro un autocompiacimento concettuale che non fa sopravanzare il ragionamento di un centimetro. Interruption non è probabilmente un capolavoro né potrà essere considerato un oggetto seminale, essendo però totalmente edificato su degli ingranaggi meta ed esibendo la sua essenza nel luogo principe dove prende forma, da una tale esibizione esplicativa non si può che raccogliere una specie di sincerità, di non-inganno, il film è così, è una dissezione del corpo-cinema (dalla recitazione alla sceneggiatura passando per la regia), e non fa niente per nasconderlo. Da qui si aprono i vari scenari interpretativi che potrebbero anche essere di un certo rilievo, le riflessioni intradiegetiche ruotano attorno alla figura dell’Attore (quelli veri sono rinchiusi in un cubo illuminato, quelli finti guadagnano scena e applausi ), a quella del Regista (che per Zois pare irrinunciabile, dopo il suicidio del primo ecco sbucare dalla platea il secondo dopo l’invocazione “deus ex machina”) e ai confini, anche fisici, della rappresentazione (nemmeno i protagonisti, a tratti, capiranno se sono ancora dentro ad un ruolo, dentro allo stage, oppure no). Alla resa dei conti ogni cosa va a rapportarsi con la madre suprema delle dicotomie, ossia il dibattito tra realtà e finzione. Non c’è via di uscita, Interruption converge lì e lì lascia gli spettatori fuori (noi) e dentro (gli altri) con il dubbio di ciò che hanno visto.

Le considerazioni giungono dunque ad un vecchio leitmotiv bipartito che è, e lo sarà per sempre, carburante teorico non solo per la settima arte ma anche per tutte le restanti sei. Come dicevo prima, Zois non innova né rinnova, agisce su un percorso battuto da altri dove trovo difficile esaltarmi, però riconosco una buona, e in alcuni frangenti più che buona, confezione generale unita a qualche buon momento (il finale adamitico sotto la pioggia: perché si spogliano non si sa, tuttavia l’impatto visivo è registrabile). Vedremo Zois se, come e quando sfornerà una seconda prova, solo allora potremo capirne di più sul suo conto.

Nessun commento:

Posta un commento