Avendo visionato i primi
due lavori brevi di Pedro Pires, Danse macabre (2009) e Hope
(2011), era pronosticabile pensare che il lungometraggio di debutto,
Triptyque (2013), diretto a quattro mani con l’attore
teatrale Robert Lepage, fosse un saggio estetizzato (e anestetizzato)
con una forma laccata e patinata a più non posso, e in effetti è
ciò che in buona parte si ravvisa: un film “normale” è reso
leggermente “diverso” da un’impostazione visiva che dà molta
importanza alle componenti di superficie, qui si registra una
continuità dei toni ambrati, autunnali, tanto che sarebbe
interessante comprendere le ragioni (oscure) di tale scelta cromatica
da parte dei registi. E se ci occupiamo di linguaggio tecnico anche
nella sintassi del montaggio vi sono particolarità, non c’è da
metterci la mano sul fuoco ma è intuibile una profusa atemporalità
che anticipa o posticipa gli eventi, niente di così eclatante,
certo, tuttavia si avvertono degli scompensi narrativi durante il
dispiegarsi della storia. Eppure, nonostante questi piccoli segnali
che non so fino a che punto possono essere definiti di stile, non è
che l’esordio di Pires osi chissà quanto, nemmeno con l’involucro
dell’opera dove al contrario era auspicabile qualcosa di davvero
memorabile, anzi chi scrive ammette sinceramente di essere rimasto
oltremodo deluso dalla veste di Triptyque.
Il motivo è forse dato
dal fatto che la vicenda rappresentata, nata dalla penna di Lepage, è
proprio una roba spenta, anti-attrattiva, barbosa, che finisce per
sminuire le stesse modalità con cui viene proposta, e se ci mettiamo
ad elucubrare sulla materia-racconto, sui possibili sottotesti e
sugli eventuali significati, non è così facile estrapolare dei
concetti definiti e soprattutto stimolanti per il pubblico. Quello a
cui presenziamo è una sottospecie di dramma famigliare che collega
le sorelle Michelle e Marie più il marito chirurgo di quest’ultima
(interpretato da un attore tedesco di nome Hans Piesbergen che è un
incrocio tra David Bowie e Sharunas Bartas), e al di là dei vari
risvolti tramici (che suscitano ben poco interesse), sembrerebbe che
Pires e Lepage vogliano focalizzare la loro attenzione sul
cervello umano e sui meccanismi custoditi al suo interno, detta così
capisco che la cosa non sia granché chiara ma è la precisa
traduzione degli eventi sullo schermo: c’è, a mio avviso, un po’
di confusione, o di mala gestione di taluni aspetti, perché ok, la
materia celebrale è quella che preme, dentro al cranio dei tre
protagonisti ci sono dei problemi, tuttavia la pellicola dopo
l’operazione di Marie (ah, dubbio razionale: ma interventi del
genere vengono fatti col paziente cosciente?!) prende una piega più
personale con la ricerca vocale del padre scomparso che appare
disunita rispetto a quanto l’ha preceduta. Ed è solo un esempio
poiché Triptyque mostra una diffusa tendenza a procedere per
compartimenti semi-stagni privi di una fluidità che gli garantisca
di avere un più ampio respiro, quello che farebbe raggiungere le
mire filosofiche preposte.
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