Goditi la
guerra, la pace sarà peggio.
Due anziane
donne, una polacca e una tedesca, raccontano a Magdalena Szymkow,
regista classe ’73 che lascia intravedere possibili, interessanti,
sviluppi futuri, le loro vite in relazione a quel mostro divora-tutto
che risponde al nome di Guerra ed alle conseguenze devastanti che da
essa derivano. Una di queste, che è poi il cuore di Mój dom
(2012), riguarda la concezione di “casa”, sia in un’ottica
esplicitamente concreta che concettuale, o forse è meglio dire
sentimentale. In tutta onestà il corto non illustra per filo e per
segno (e non è che sia una cosa negativa) come le due donne si siano
ritrovate vicine (… in Siberia deportate dall’esercito
sovietico?) pur appartenendo a due Paesi differenti, quanto comunque
emerge, e ce lo facciamo andare bene, è la condivisione di una
similare esperienza tragica e scioccante in cui entrambe sono state
costrette a raccattare ciò che avevano a portata di mano (“non ci
hanno lasciato prendere neanche una bambola, né una pentola o una
padella”) e andarsene via, verso l’ignoto, verso la paura (“gli
occhi dei lupi sono come fiamme nella notte […], i loro occhi sono
come torce nella notte”). Insomma, è uno di quei casi in cui dalla
Storia si propaga un’emorragia di altre storie, piccole e
sconosciute, che però aiutano ad intendere meglio la misura di un
dramma globale.
Tecnicamente
il film si avvale dell’asciuttezza tipica delle interviste
impreziosita dall’inserimento di immagini d’archivio. La Szymkow
e i suoi collaboratori centrano la questione, il cinema è un
ambiente eccezionale per implementare il ricordo di un singolo. I
filmati in bianco e nero che scorrono sulle parole delle due signore
aumentano il tasso di trasporto/immedesimazione, anche se non c’è
un’effettiva correlazione tra ciò che viene detto e ciò che viene
visto. È del resto la lezione del nume tutelare Chris Marker che si
perpetua negli anni rivelando, per l’ennesima volta, la forza della
settima arte applicata all’area mnemonica. In aggiunta la regista
si dedica a delle piacevoli sovrapposizioni visive (niente male
quella del treno che sfuma in un bosco mentre ascoltiamo la
testimonianza della deportazione) che ci suggeriscono dei collassi
tra passato e presente, accenni, ammalianti accenti per un lavoro
degno di attenzione cinefila.
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