A parte la
crescita anagrafica di Quinquin ed il correlato cambio di appellativo
in Coincoin, non ci sono grandi differenze tra P’tit Quinquin
(2014) e Coincoin and the Extra-Humans
(2018): se nella prima stagione della mini-serie degli strani omicidi
scuotevano la tranquillità di un paesino francese affacciato sulla
Manica, nella seconda l’iter narrativo è identico, nuovamente
accadono dei fatti misteriosi e sempre nuovamente il comandante Van
der Weyden insieme al fido Carpentier si mettono ad indagare per
arrivare ad una soluzione. Sullo sfondo, ma anche in primo piano,
Coincoin e i suoi amici sono coinvolti in prima persona nelle varie
incomprensibili situazioni che mano a mano vanno a presentarsi. Le
due serie di Bruno Dumont sono quindi strutturalmente speculari,
davvero in tutto: nelle premesse, nello svolgimento ed anche nella
risoluzione che ovviamente non c’è perché, come sappiamo, dare
una spiegazione non è nelle mire del regista pertanto il finale
diventa la cosa più lontana possibile da uno scioglimento
investigativo, da una chiusa razionale ed esaustiva, e onestamente
non c’è niente come spettatore che mi rende più felice di quando
vengono adottati procedimenti che non si attengono ad ogni costo alla
logica della rivelazione. Che Dumont ritroviamo allora? Quello
“sperimentatore” di Jeannette
(2017) o quello (al tempo innovatore, per la sua stessa filmografia)
di P’tit Quinquin e
di Ma loute (2016)?
Domande
pleonastiche ma utili ad inquadrare Coincoin. La
piccola notizia è che Dumont, a ’sto giro, si inoltra in un
ulteriore sentiero categoriale. Appare infatti lampante che
L’invasione degli ultracorpi
(1956) sia stata la principale fonte di ispirazione per l’autore,
ne consegue che anche la fantascienza, dopo la commedia ed il
musical, diventa un genere affrontato da BD, vieppiù che sul finale,
se vogliamo, si sconfina addirittura nell’horror romeriano con l’apparizione
di una zombesca Aurélie. Ma in realtà, almeno rimanendo nell’area
di questo film, la varietà dell’approccio è una patina che
addobba solo in superficie un oggetto rispondente per filo e per
segno al volere del suo demiurgo. L’ho già detto ma mi ripeterò:
non riesco ad essere un fan della tragicommedia dumontiana, fatico a
vedere una perfetta aderenza tra i classici stilemi comici e i tempi
imposti da Dumont. Magari sbaglierò traiettoria di giudizio
ricordando romanticamente il passato mentre qui ormai parliamo, dopo
ben tre pellicole, di un’idea di comicità assodata, praticamente
un canone, tuttavia, dopo, appunto, tre film,
trovo alcune scene(tte) ancora balbettanti, a tratti perfino ibride
perché incapaci di scavallare realmente nel grottesco o nella risata
più banale, preferendo sostare in un limbo non pienamente
soddisfacente. Sicuramente mi prendo la responsabilità di additare
le derive slapstick (vedi spintonamenti tra i due poliziotti) che
proprio non trovo divertenti, parimenti l’insistere sulla
prosopopea di Van der Weyden e le annesse espressioni incredule di
Carpentier ricadono un po’ nella ripetizione [1], indubbiamente i
siparietti sono caratterizzanti però non
brillano per varietà.
Sarei
comunque parecchio stolido a liquidare in due righe la coppia di
agenti visto che, e correggetemi se sbaglio, sono loro il moto
portante dell’opera, sono loro che si rapportano con tutti gli
altri personaggi del paese e sono sempre loro che portando avanti la
sgangherata indagine rendono edotti gli spettatori sui – per così
dire – progressi dell’inchiesta. Sono due figure, due vere e
proprie maschere che, al netto di alcuni frangenti dove il modus
operandi di Dumont dà la sensazione che si poteva dare di più e
meglio al registro della commedia, funzionano, e tanto, al punto di
far intravedere una forza tale da poter essere i soggetti principali
di una serie ad hoc di cui sarei il primo sostenitore. In Coincoin
i
momenti migliori che li riguardano si trovano nel terzo e nel quarto
episodio quando il doppio del comandante inizia a imperversare nel
villaggio creando scompiglio nella mente del povero Carpentier, anche
qui ribadisco la non piena riuscita di talune sequenze (il controllo
in automobile del signor Lebleu o l’appostamento fuori dalla casa
che pare attirare i cloni), ma, ad esempio, la telefonata tra i due
Van der Weyden o in generale i diffusi misunderstandings che vengono
a crearsi sono alquanto spassosi. Per dovere di cronaca va riportato
che in Coincoin
c’è una nuova sfumatura nella delineazione dell’ispettore, non è
velata infatti la sua avversione verso dei migranti accampati nei
pressi del paese, e se aggiungiamo il rifiuto di stringere la mano
all’imam della comunità locale, questa sua ottusità (non me la
sento di definirlo razzismo) ce lo fa risultare meno macchietta stile
fratelli Marx e più individuo della realtà (piena di gente ottusa,
del resto), senza comunque smarrire la buffa cifra che lo
contraddistingue.
È strana la presenza dei migranti, sono gli unici a non avere contatti diretti con la nera sostanza che precipita dal cielo, vagano in gruppo senza avere rapporti con i paesani. Il fatto che ci siano è un plausibile aggancio al presente (sarebbe un po’ il medesimo procedimento usato per Van der Weyden, ovvero la costruzione di un quadro irreale in cui si innestano particolari concreti), alla mera realtà della cronaca (ricordiamo che siamo in una zona vicina a Calais). Ma non solo. Un’interpretazione che avanzo vedrebbe gli uomini di colore che errabondano a gruppetti per le strade una minaccia fittizia costruita da Dumont il quale ironicamente (e questa è davvero l’ironia che piace) rovescia l’opinione comune (impersonata dal comandante ma potrebbe esserci qualunque altro cittadino medio al suo posto, tipo i sostenitori del partito Bloc, altro aggancio alla contemporaneità) che si ha dei migranti, sicché, per mezzo dello stratagemma dei cloni umani (e poco importa quale sia la loro vera natura) si rende evidente che il vero pericolo non viene da dei negri che vivono in una baraccopoli o nell’umidità di una galleria, ma dai nostri simili. Dal bonario signor Lebleu, dal ritardato Dany, dalla dolce Eve e via dicendo. La lezione è una lezioncina moraleggiante? A leggere potrà sembrarvi così, nel flusso del film una tale decrittazione non è evidente e quindi la potenziale lettura va scovata.
Tutto
ciò conduce ad un finale che è il Finale delle due serie. Come
detto nel primo paragrafo a Dumont non interessa dare spiegazioni,
per cui sceglie di concludere Coincoin
con
una chiusura del cerchio capace di riunire in una grande festa
colorata coloro i quali hanno dato vita [2] (e morte, ci sono anche i
deceduti della stagione precedente per l’occasione redivivi) per
otto puntate al teatrino tragicomico che tanto è piaciuto ai
Cahiers.
È una apocalisse ludica che (si) sbeffeggia mandando a monte ogni
congettura fatta fino a quel momento. Della melma cade dal cielo e
una lucina volante insemina degli esseri umani che per mezzo di una
peto-genesi figliano dei propri cloni? I defunti tornano dall’aldilà
senza un perché? Dumont risponde evitando di rispondere, la sua Fine
è una sarabanda, un cerchio perpetuo (ultima inquadratura aerea) che
gira in tondo. Tanto tempo fa il caro Bruno ci toglieva il fiato con
ben altre tipologie di resurrezioni (cfr. Hors Satan,
2011), adesso allestisce una parata carnevalesca per mettere un punto
al proprio discorso. Che si può fare?... ci si accontenta.
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[1] A sproposito, in
riferimento a P’tit Quinquin Dumont aveva affermato che i
tic di Bernard Pruvost sulla scena erano dovuti anche – e non
esclusivamente suppongo – all’utilizzo di auricolari attraverso
cui il regista gli comunicava le battute da dire. Ebbene, in Coincoin
gli auricolari sono assolutamente ben visibili sia nell’orecchio di
Van der Weyden che in quello di Carpentier.
[2] C’è anche un piacevole
cammeo di Emmanuel Schotté, il primo detective nella filmografia
dumontiana apparso ne L’umanità (1999), che qui se la deve
vedere con un gabbiano oltremodo aggressivo.
P’tit Quinquin mi era piaciuto di più di Coincoin, ma siamo sempre ad alti livelli...
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